Una manifestazione in Corea del sud nel 2015 contro l'accordo con il Giappone sulle "schiave del sesso". Foto LaPresse

Lo strano caso del #MeToo sudcoreano

Giulia Pompili

Non è tutta colpa del patriarcato, ma del confucianesimo

Roma. In una società confuciana come quella sudcoreana sembrava che le donne fossero abituate a tacere, dice al Foglio un sudcoreano di mezza età abituato a frequentare l’occidente. Non lo dice per estremizzare: le dinamiche sociali nel Sud della penisola sono strane, particolari, la nostra rivoluzione femminista non ha mai avuto luogo – prima andava ristabilito l’ordine democratico, semmai. E quindi in Corea del sud patriarcato è una parola che avrebbe perfino un senso, ma appunto, la colpa da queste parti è sempre del confucianesimo. Qui la tradizione di una gerarchia rigidissima basata sul sesso delle persone e sull’età è ancora radicata: gli uomini sono in una posizione di potere sulle donne, gli anziani meritano più rispetto di chiunque altro. E avremmo giurato che in Corea del sud il #MeToo non sarebbe mai arrivato, ma la società più tecnologizzata del mondo sta cambiando più veloce del previsto. Anzi, la notizia di ieri potrebbe avere forti conseguenze anche sulla politica sudcoreana, perché Ahn Hee-jung, cinquantadue anni, governatore della provincia del Chungcheong del sud, era un astro nascente del Partito democratico. Nel 2016 la dirigenza lo aveva indicato come un possibile candidato alla presidenza della Repubblica sudcoreana, per via di un incredibile quanto inaspettato sostegno popolare di cui godeva – poi, all’ultimo, era stato candidato Moon Jae-in. Grazie a quel buon risultato, da tutti era considerato un possibile candidato alle prossime elezioni, e nelle pagine di politica coreana Ahn ha sempre avuto parecchio spazio. Fino a qualche giorno fa. Una delle sue segretarie, Kim Ji-eun, è andata alla Jtbc domenica scorsa e ha raccontato tutto. Una settimana prima della confessione in tv, dice Kim, il suo capo l’ha chiamata nel suo ufficio e ha chiesto di nuovo favori sessuali. Secondo la versione di Kim, il politico l’avrebbe violentata almeno quattro volte negli ultimi otto mesi, e molte altre donne del suo ufficio erano state vittime degli stupri. Kim ha spiegato, piangendo, che ha paura per la propria vita e che pensava che non avrebbe mai avuto il coraggio di raccontare certe cose: “Mi diceva sempre di non esprimermi, che non dovevo avere un’opinione su niente e dovevo vivere nella sua ombra. Non potevo dirgli no, sapevo quanto potere aveva”. Ma negli ultimi due mesi l’attenzione pubblica sudcoreana ha preso il meglio dal movimento pazzotico venuto da Hollywood, e qualche reale effetto inizia a vedersi. Non è un caso se nello stesso giorno della confessione di Kim, in diretta tv, proprio poche ore prima il governatore aveva parlato pubblicamente del #MeToo appoggiando la campagna. Il colpo d’immagine è stato fortissimo: prima l’ufficio di Anh ha negato le accuse dicendo che il sesso era consensuale, ma poco dopo lui stesso ha scritto un lungo post su Facebook, annunciando le sue dimissioni da governatore e il suo ritiro dalla vita pubblica: “E’ tutta colpa mia, chiedo perdono per i miei atti sconsiderati”. La polizia ha aperto un’inchiesta.

  

Nelle ultime settimane però è soprattutto il mondo della cultura sudcoreano a essere stato colpito da una valanga di dimissioni eccellenti e scuse pubbliche. Lee Yountaek, sessantacinque anni, è un produttore e regista teatrale tra i più noti in Corea del sud. Cinque giorni dopo la prima accusa di stupro da parte di un’attrice che aveva lavorato con lui, arrivata su Facebook, Lee ha convocato una conferenza stampa e con aria avvilita e vergognosa ha ammesso tutto. Le sedici donne che si sono unite alla prima attrice non hanno fatto altro che entrare alla stazione centrale di polizia di Seul e sporgere denuncia (polizia che, spiegava il Korea Times giorni fa, ha consigliato alle vittime di evitare la sovraesposizione mediatica per non essere facile oggetto di critiche).

  

Subito prima era accaduta una cosa ancora più singolare: la poetessa Choi Young-mi aveva pubblicato su un magazine dedicato alla poesia un componimento titolato “The beast”. Molti avevano notato un episodio particolarmente circostanziato della violenza raccontata nella poesia, e così è iniziato a circolare sui giornali il nome di Ko Un, cioè “la bestia”. Ottantaquattro anni, poeta, scrittore, saggista e uno dei sudcoreani più famosi del mondo, Ko Un è periodicamente candidato al premio Nobel per la Letteratura. Nonostante le tormentate poesie sull’amore e il senso della vita, nonostante il suo passato da monaco buddista, sembra che il celebre intellettuale amasse farsi masturbare dalle giovani letterate che si rivolgevano a lui per consigli e pubblicazioni. E che tutti sapessero, nell’ambiente, di questo suo vizio. Adesso, in attesa delle indagini ufficiali, il ministero dell’Istruzione sta pensando di togliere le opere di Ko Un dai libri di testo scolastici.

  

Il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha parlato pubblicamente delle molestie contro le donne dopo il primo caso, quello del pubblico ministero Seo Ji-hyeon. Ingiustamente trasferita a incarichi minori dopo essere stata molestata dal suo capo, è stato solo dopo la sua intervista in televisione che la polizia ha aperto un’inchiesta nel dipartimento di Giustizia.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.