Xi Jinping (foto LaPresse)

L'economia rallenta. Ma la svolta green è una gran furbata

Giulia Pompili

Politica, economia, sicurezza e alleanze. Si apre oggi il diciannovesimo conclave del Partito comunista. No, non è uguale a tutti gli altri, anche perché il mondo intanto si è un po’ capovolto

Roma. Per la Cina, seconda economia mondiale, i prossimi cinque anni saranno determinanti per realizzare il sogno di un sistema economico sano e stabile, capace di aprirsi al mercato globale lasciando il controllo di finanza e investimenti a Pechino. Chi costruirà, letteralmente, l’economia cinese e l’agenda fino al terzo plenum economico del Partito dell’autunno 2018? Tutti i nuovi nomi che compariranno tra i ruoli strategici della Cina che verrà “non contano. Perché a Pechino comanda Xi Jinping”, dice al Foglio Michele Geraci, capo del programma sull’economica cinese della Nottingham University Business School China e direttore del Global Policy Institute China, nonché uno degli analisti italiani più autorevoli sulle questioni cinesi. Per Geraci questo congresso non porterà a grandi cambiamenti dal punto di vista politico perché “tutte le persone di cui si circonda Xi sono lì perché eseguiranno i suoi piani, e non dovrebbero comportare grandi novità”. Sulla strategia economica, però, si possono fare alcune previsioni. Reuters ha eseguito un sondaggio tra 54 analisti, pubblicato ieri, nel quale si prevede che il pil cinese dovrebbe scendere al 6,8 per cento nel terzo trimestre dell’anno, rispetto al 6,9 per cento del trimestre precedente. Un rallentamento in contrasto con la previsione del governatore della Banca centrale cinese Zhou Xiaochuan (+7 per cento nella seconda metà del 2017). “Per i prossimi cinque anni, mi aspetto un maggiore ottimismo sulle previsioni di crescita”, dice al Foglio Geraci, “più di quando non ci sia già. Sulle riforme finanziarie mi sembra ci sia poco: molte parole e nessuna sostanza. Noto invece una continua accelerazione sul settore della ricerca, e parliamo non solo di energia, ma anche di industria più tradizionale come il manufatturiero, per esempio. L’obiettivo di Xi è anche quello di competere con gli Stati Uniti anche sul piano della ricerca scientifica in senso stretto”. Per esempio, la Cina di Xi – grande esclusa dalla collaborazione della Stazione spaziale internazionale – da anni lavora a un programma spaziale parallelo che ha avuto i suoi fallimenti (la base spaziale Tiangong 1, lanciata nel 2011 e fuori controllo da circa un anno) ma anche straordinari successi, e nel 2020 dovrebbe essere ufficializzato la missione per Marte.

 

“La Cina sta accelerando in vari settori”, e nodo cruciale, spiega Geraci, è la green economy: “Al di là del rallentamento del pil, la green economy servirà a Xi Jinping per stabilire un nuovo patto con la popolazione”. L’uscita dell’America di Trump dagli accordi di Parigi è positiva per la Cina, perché “così si metterà di nuovo tutto in discussione, e Pechino ha già preso l’occasione al balzo”. Ma se il paese inquinato non è una novità (“l’inquinamento c’è e c’è sempre stato”), per Geraci adesso Xi serve dello smog per cavalcare la green economy e dare anche una giustificazione al rallentamento del pil. Come dire: se produciamo meno è perché il governo si sta impegnando a produrre green. E lo si nota dai media, dove viene dato più spazio a scandali di emissioni che magari prima venivano insabbiati, per produrre nella popolazione una nuova consapevolezza.

 

Dunque è vero quando diciamo che la nuova leadership globale è cinese? “Per Xi la leadership internazionale è solo uno strumento per legittimarsi internamente”. E non per i prossimi cinque, ma per i prossimi vent’anni. “Anche la nuova Via della seta, gli investimenti in Africa servono a dimostrare ai cinesi che la Cina non è più isolata”. Eppure l’Europa sembra accogliere con favore gli investimenti cinesi, tra squadre di calcio e aziende strategiche: “In Europa viviamo una contraddizione: la crisi economica fa sì che l’interesse dell’azionista della società sia in contrasto con l’interesse del paese. La Cina, ovviamente, fa i propri interessi e va incontro ai bisogni di chi vende. Ma gli investimenti cinesi”, spiega Geraci, “non portano nuovi capitali, è solo uno scambio di azionisti. Non ci sono nuovi posti di lavoro, né un’apertura al mercato cinese di prodotti esteri”. E allora la soluzione, per Geraci, potrebbe essere quella di acquisizioni a passaggi obbligati, con l’acquirente cinese limitato ad acquistare in un primo momento solo il 30 per cento della società oggetto, salvo poi aumentare la quota dopo aver verificato una serie di criteri indispensabili al miglioramento economico della società (e quindi del paese). Salvaguardare l’interesse nazionale, come ha fatto Emmanuel Macron in Francia andando a negoziare a Bruxelles le barriere sullo shopping straniero. “Perché è vero che abbiamo bisogno di investimenti, ma dovremmo domandarci: di che tipo di investimenti?”.

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.