Trump con Xi Jinping (foto LaPresse)

Trump è una "tigre di carta" che non può più arginare la Cina in Asia

Massimo Morello

Il viaggio asiatico del presidente ha consacrato Pechino e ha mostrato che le strategie di contrasto sono più deboli

Bangkok. L’oceano Indiano è più che un’affascinante espressione geografica. E’ un’idea”, ha scritto Robert D. Kaplan, studioso di geopolitica pura. Nello stesso saggio, “Monsoon: The Indian Ocean and the Future of American Power”, precisa: “Ciò che lo storico britannico C. R. Boxer aveva definito ‘Asia dei monsoni’, all’incrocio tra l’oceano Indiano e il Pacifico occidentale, demograficamente e strategicamente sarà il centro del XXI secolo”.

 

Sembrerebbe che Donald Trump abbia studiato i saggi di Kaplan. Prima e durante il suo lungo tour in Asia (concluso martedì 14), ha ripetuto l’espressione “Indo-Pacifico” come un mantra. La definizione “cattura l’importanza delle comuni libertà marittime che assicurano la continuità della nostra sicurezza e prosperità” ha detto un funzionario della sua Amministrazione. Secondo alcuni osservatori, invece, è un modo di prendere le distanze dalla strategia del “Pivot to Asia” di Obama.

 

E’ improbabile che Trump abbia studiato Kaplan. “Non sembra abbia il senso della storia” ha scritto Kaplan. “Perché il senso della storia deriva soprattutto dallo studio”. Ma quella che potrebbe apparire come una pura elucubrazione di toponomastica geopolitica definisce il senso della politica asiatica dell’Amministrazione Trump: “Indo-Pacifico” è un modo sintetico (e un po’ ambiguo) per descrivere il progetto una volta definito “Quadrilaterale” (abbreviato in Quad), ossia un’alleanza tra Stati Uniti, India, Giappone e Australia. Un progetto lanciato dal premier giapponese Shinzo Abe nel 2007 quando propose una “dinamica unione” tra oceano Indiano e Pacifico, che avrebbe formato “un arco di libertà e prosperità”.

 

Secondo molti analisti la nuova terminologia ha un significato strategico: evidenzia sia l’espansionismo cinese nel mar Cinese meridionale sia la crescente presenza del Plan, la marina dell’esercito popolare di liberazione, nelle acque del Golfo del Bengala e Golfo Persico. “Quando parliamo di Asia orientale o sud-est asiatico, la Cina è dominante”, ha detto il professor Zachary Abuza del National War College di Washington. “Ma quando allarghiamo l’orizzonte, allora c’è una forza di contrasto”. Senza contare il rafforzamento della marina indiana che schiera i nuovi sottomarini nucleari classe Arihant. L’India, del resto, è preoccupata dall’appoggio cinese al suo nemico storico, il Pakistan, e dall’influenza sui vicini Bangladesh e Sri Lanka. Tutti paesi entrati nell’orbita Obor, One Belt One Road, “una cintura, una strada”, concepita da Pechino per far rivivere le antiche vie della seta in un network di commerci e infrastrutture tra Asia, Europa e Africa.

 

Ormai il maschio alfa in Asia è Xi Jinping, che il mese scorso è stato consacrato come il più potente leader cinese dopo Mao Zedong (il suo concetto di “Socialismo dalle caratteristiche cinesi per una nuova èra” è stato inserito nella Costituzione del Partito comunista) e la strategia trumpiana rischia di apparire una “tigre di carta”. Rispetto al 2007, quando fu proposta la Quadrilaterale, la Cina è divenuta enormemente più forte. Nel 2016 il commercio tra Cina e nazioni comprese nell’Obor ha totalizzato 913 miliardi di dollari. Nel frattempo il commercio di Giappone e Australia con la Cina è cresciuto sino al 20 per cento del totale.

 

Mentre Xi offre la “visione” di un mondo beatificato dalla Belt and Road, Trump, dopo essersi ritirato dalla Trans-Pacific Partnership, ribadisce il concetto di “America First” nel corso della riunione dell’Asia-Pacific Economic Cooperation. Né può tranquillizzare i paesi dell’area l’offerta di Trump di accordi bilaterali (in contrasto con la strategia multilaterale di Obama). Soprattutto perché si mette in diretta concorrenza con la politica cinese, da sempre fautrice di un bilateralismo inserito in una prospettiva panasiatica. Secondo Carlyle Thayer della University of New South Wales di Sydney, “Xi si è mosso nel vuoto che si è creato offrendo un modello da seguire”. Il vuoto creato dall’isolazionismo trumpiano ha vanificato ciò che rappresentava il suo vantaggio sul Pivot di Obama: l’indifferenza al rispetto dei diritti umani. Un’indifferenza (a volte quasi invidia) che gli ha fatto incontrare un nuovo amico, il presidente filippino Duterte, che ha risolto il problema della droga con circa 6.000 esecuzioni extragiudiziali. “Mi congratulo con te per l’incredibile lavoro che hai fatto”, ha detto Trump. Ma non è stata sufficiente a controbilanciare i “valori asiatici” propugnati da Pechino secondo cui i diritti umani sono soggetti a un principio di gerarchia. Anzi, è stata proprio la “Asean Way” sostenuta da Pechino che si è rivelata la chiave per i nuovi accordi tra i paesi asiatici nella versione del Tpp meno gli Stati Uniti. “Se vuoi fare soldi, stai con la Cina. Se no resta povero”, ha commentato Hu Xijin, direttore del Global Times.

 

Il “China Dream” evocato da Xi sembra materializzarsi anche in campo militare. Come sostiene Michael Fabey nel saggio “Crashback: The Power Clash Between the U.S. and China in the Pacific”, secondo i giovani ufficiali del Plan, la marina cinese è prossima a infrangere l’egemonia statunitense. Il che potrebbe verificarsi non solo per navi o sistemi d’arma. L’Amministrazione Trump, infatti, sta investendo pesantemente sul rafforzamento della flotta. Ma, sostiene Kaplan, manca la capacità di utilizzare la forza come mezzo di diplomazia.

  

Così, nonostante la sua forza in campo, rispetto alle dispute sul mar Cinese meridionale, in un meeting con il presidente vietnamita Tran Dai Quang, Trump si è limitato a vantare le sue capacità di mediatore. Dopo quell’incontro i leader dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico hanno stabilito di procedere nei negoziati per un Codice di Condotta che regoli la navigazione nel mar Cinese. “Hanoi e Pechino hanno concordato di mantenere la pace nel mare”, si legge nella dichiarazione in cui affermano la volontà di “gestire bene le controversie in mare, non attuare decisioni che possano complicare o ampliare le controversie, mantenere la pace e la stabilità sul mare orientale”.

Di più su questi argomenti: