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In Giappone e Corea il tycoon fa quel che gli riesce meglio: vende

Giulia Pompili

I primi due giorni del presidente americano in Asia si concludono con un importante deal, far comprare armamenti americani a Tokyo e Seul 

Roma. Della prima visita di stato del presidente americano Donald Trump in Giappone si ricorderà soprattutto quello che i social network hanno definito il “koigate”. Nella meravigliosa cornice del Palazzo Akasaka, la reggia che in passato era la residenza dei successori dell’Imperatore e che oggi viene usata per ospitare i capi di stato più importanti, Trump e il primo ministro nipponico Shinzo Abe hanno osservato per un po’ le carpe koi, una razza di carpe particolare, tra i simboli del Giappone. Le carpe del Palazzo Akasaka, poi, sono le stesse che ha studiato per anni l’attuale imperatore Akihito, il quale oggi viene considerato dalla comunità scientifica il massimo esperto al mondo di carpe koi. Com’è consuetudine, Trump e Abe hanno usato il cibo per attirare le carpe del laghetto, e poi però sono state diffuse le immagini del presidente americano che rovescia nell’acqua l’intero contenuto della ciotola, “rischiando di ammazzare le carpe”. Scandalo, animalisti in rivolta. Peccato che l’intera sequenza mostrava subito prima lo stesso Abe, più avvezzo alle consuetudini giapponesi, svuotare il cibo destinato alle sacre carpe. E insomma il “koigate” ha catalizzato l’attenzione pubblica, ma ben più importanti e degne di nota avrebbero dovuto essere le parole del presidente Trump sul riarmo giapponese – parole che somigliano a un ricatto: Tokyo sarà in grado di sconfiggere la Corea del nord non appena avrà finito di comprare gli armamenti dagli Stati Uniti. Riguardo al mantra ormai ripetuto a ogni occasione pubblica, ovvero “tutte le opzioni sono ancora sul tavolo”, ieri – dopo l’incontro di Trump con i familiari delle vittime dei rapimenti da parte dei nordcoreani negli anni Settanta e Ottanta – qualcuno ha messo in dubbio la strategia troppo cedevole messa in campo da Shinzo Abe. Sono lontani i tempi in cui falchi conservatori come Shintaro Ishihara, figura controversa della politica giapponese e governatore di Tokyo per più di un decennio, scrivevano libri dal titolo “Il Giappone che sa dire di no”. La promessa di Shinzo Abe di riportare a casa, vivi o morti, gli (almeno) dodici cittadini giapponesi rapiti dagli agenti nordcoreani si allontana sempre di più ogni volta che l’America parla di una opzione militare.

  

Oggi Trump si è spostato in Corea del sud, il paese più escluso dai vertici e dalle consultazioni di questo anno trumpiano. A Seul, dove non è stato ancora nominato un ambasciatore (ma il chargé d’affaires è Marc Knapper, uomo del dipartimento di stato che conosce bene la penisola) e dove si è fermato soltanto per ventiquattro ore, la delegazione della Casa Bianca è stata accolta con una incredibile fanfara diplomatica, compreso un pacchiano corteo militare in abiti tradizionali. Alla cena di gala – dove non erano ammessi alcolici perché Trump è astemio – è stata servita una salsa di soia “più antica dell’America stessa”, fatta nel 1657, “l’anno di nascita del padre di Benjamin Franklin”. E tutta questa affettuosità da parte del presidente democratico Moon Jae-in è finita con altri armamenti americani presto disponibili per la Corea del sud: si parla di sottomarini a propulsione nucleare e droni.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.