Il derby al Toro, venti anni dopo

Pierluigi Pardo
Intorno ci sono la Gran Madre, la Collina, il fiume, lo sfarzo austero da capitale che fu e l’anima pop di chi andò a vivere lì molto tempo fa per costruire auto.

    Intorno ci sono la Gran Madre, la Collina, il fiume, lo sfarzo austero da capitale che fu e l’anima pop di chi andò a vivere lì molto tempo fa per costruire auto. In mezzo al prato due squadre storiche, tutto intorno un contorno ignobile al quale corriamo quasi il rischio di abituarci.

     

    L’assalto al pullman e la bomba carta che esplode finiscono per rovinare una partita meravigliosa, incerta, letteraria, giocata alla grande da tutte e due le squadre (la Juve ha preso tre pali e poteva pareggiare, il Toro ha sfiorato il 3 a 1). Pirlo è Giotto, disegna traiettorie sublimi. Il Toro è ciò che da sempre vuole essere: energico, coraggioso e piuttosto tremendista.

     

    Vince il derby dopo vent’anni. Clamoroso. Quasi come vedere il banchiere Corrado Passera incerottato in segno di protesta davanti a Palazzo Chigi, manco fosse Pannella. Quasi come la Roma che non vince più, il Napoli che rimonta quando tutto sembrava perduto, la Viola che affonda senza lottare o il Parma che trasforma la disperazione sportiva in dignità e adesso vince spesso.

     

    La Boschi cita Saramago, l’Italia si divide su Expo e Italicum. Il coraggio di cambiare del resto non abita qui. Il Pd si divide su tutto ma ha comunque quasi il 40 per cento secondo i sondaggi. “Ti amo Costanza ma senza Speranza” c’è scritto da sempre sul Lungotevere. Speranza non è Roberto, e la scritta comunque pare non l’abbia fatta Renzi. In Nepal intanto quattromila vittime, così lontane e così vicine. In Inghilterra aspettano il Royal Baby. Noi abbiamo il nostro 25. La novità di quest’anno è l’hashtag. Come sempre ha piovuto e ci sono stati partigiani e lacrime, Fazio e “Viva l’Italia”. Con gli occhi asciutti nella notte triste. Composti, rispettosi, orgogliosi. E italianissimi.