Flash mob per il Sì al referendum sulle trivelle del 17 aprile (foto LaPresse)

Un paese più povero e meno credibile. Cosa succede se vincono i No Triv

Salvatore Carollo
Partiamo dall’ipotesi che il 17 aprile si superi il quorum e vincano i Sì. Passata la sbronza delle esultanze e delle sbrodolate televisive, cosa succederebbe il giorno dopo, concretamente nella vita del nostro paese?

Al direttore - Partiamo dall’ipotesi che il 17 aprile si superi il quorum e vincano i Sì. Passata la sbronza delle esultanze e delle sbrodolate televisive, cosa succederebbe il giorno dopo, concretamente nella vita del nostro paese?

 

Le compagnie petrolifere italiane e internazionali prenderebbero atto che l’Italia è un paese in cui non si può investire, perché il quadro legislativo può cambiare in corso d’opera senza garantire agli investitori la possibilità di recuperare gli investimenti fatti. Le piattaforme produttive entro le 12 miglia dovranno chiudere, per legge, entro pochi anni, alla scadenza della data di concessione, che per 2/3 vuol dire entro il 2018. La domanda che si porranno le compagnie operatrici sarà molto semplice: conviene continuare a investire (manutenzione, personale qualificato, sicurezza, trasporti di beni e servizi…) per mantenere in funzione queste piattaforme fino alla scadenza della concessione?

 

Molto probabilmente, il conto economico suggerirà di fermarsi subito e liberarsi da una serie di costi, uscendo del tutto  da un paese in cui l’investitore è visto come un nemico a prescindere. Perderemmo quindi rapidamente una storica produzione nazionale di idrocarburi, che ci ha permesso di avviare lo sviluppo economico e sociale del paese con la capillare metanizzazione di tutte le regioni italiane. Metteremmo definitivamente in crisi il modello italiano di approvvigionamento energetico costruito da Enrico Mattei, fin dal Dopoguerra e che ci ha consentito di disporre di energia a basso costo per oltre 60 anni.

 

Infatti, i giacimenti di idrocarburi italiani, oltre che fonte di energia a basso costo, sono stati il nostro campo scuola, dove le nostre imprese sia petrolifere che di ingegneria e di impiantistica, hanno imparato il mestiere divenendo protagonisti sulla scena internazionale. Oggi, la tecnologia e il know-how italiani sono leader nel mondo. La prima piattaforma nella storia costruita a nord della Norvegia, nel mare di Barents, vede l’Italia protagonista con l’Eni operatore ed aziende italiane impegnate nella realizzazione. Tutto questo grazie all’esperienze maturate nella ricerca e nella produzione di idrocarburi nei nostri mari. Per decenni, i servizi, i beni, gli impianti, il know-how, il lavoro qualificato dei nostri tecnici, venduti all’estero dalle aziende che vivono intorno al mondo dell’industria degli idrocarburi italiani, hanno generato entrate valutarie (almeno 120 miliardi di euro l’anno) che hanno compensato i costi dell’energia che abbiamo importato dall’estero.

 


Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni (foto LaPresse)


 

Chi dice che i nostri idrocarburi sono poca cosa non ha capito di che parliamo. La genialità dei nostri padri è stata nel costruire un gigantesco sistema di imprese, che hanno creato un ceto sociale fatto di tecnici, imprenditori, artigiani, politecnici, scuole professionali, centri di ricerca, diffusi sul territorio nazionale ed in grado di misurarsi con le sfide dell’internazionalizzazione e della globalizzazione.

 

Dal 18 aprile, questo sistema verrebbe destabilizzato nelle sue fondamenta. Verrebbe a mancare la base che lo supportava. Alcune aziende sopravvivranno, ma fuori dall’Italia. Alcuni professionisti continueranno a lavorare ma all’estero, alle dipendenze di aziende straniere. Il nostro paese sarà più povero e meno credibile, non tanto per gli idrocarburi persi, ma per il colpo inflitto al sistema Italia. I referendari, che non vorrebbero intestarsi un simile tipo di vittoria basata sul disastro nazionale, dicono che il resto delle attività off-shore, al di fuori delle 12 miglia, resterà inalterato e che le compagnie potranno continuare a operare tranquillamente.

 

Perché una compagnia internazionale dovrebbe sentirsi “tranquilla” e continuare a investire in un paese in cui una disputa fra fazioni politiche può mutare il quadro legislativo di riferimento? Non succede in nessun altro paese, nemmeno nel terzo mondo. Da quanto si conosce dai rapporti delle aziende quotate in Borsa, gli investimenti previsti per il settore petrolifero nei prossimi quattro anni in Italia, sono prossimi allo zero. Ciò vuol dire semplicemente che i referendari avranno stravinto al di là di ogni loro aspettativa, avranno ottenuto la distruzione totale di un settore produttivo strategico per l’Italia, con la perdita di migliaia di posti di lavoro, 32 mila per le attività dirette ed indirette in Italia  e fino a 100 mila se si pensa a quelle svolte all’estero dalle stesse aziende.

 

Demolito il sistema Italia per gli approvvigionamenti energetici, che ci garantiva l’acquisto bilanciato degli idrocarburi di cui abbiamo e avremo bisogno, saremmo obbligati ad acquistare le risorse energetiche indebitandoci o sacrificando altri tipi di investimenti sociali. Quindi, rinunceremmo alla ricchezza che deriva dagli idrocarburi nazionali e dalle entrate derivanti dalle esportazioni di beni e servizi del settore dell’indotto petrolifero. Senza questa ricchezza e con i maggiori costi che dovremo affrontare, dove troveremo le risorse per finanziare ulteriormente lo sviluppo delle fonti rinnovabili? Con ulteriori tassazioni aggiuntive? L’Italia ha già messo in essere un ammontare di incentivi pubblici (circa 12,5 miliardi di euro all’anno almeno per i prossimi dieci anni) per favorire l’installazione di pannelli solari e pale eoliche. L’Italia, con queste installazioni, ha già raggiunto con anni di anticipo, l’obiettivo posto dall’Unione europea.

 


Pale eoliche (foto LaPresse)


Questi concetti sembrano abbastanza semplici e lineari basati sulla evidenza di fatti inoppugnabili. Di fronte alle polemiche referendarie ancorate a evocazioni emotive basate sulla disinformazione, ha ragione Romano Prodi a parlare del referendum in termini di “suicidio nazionale”. Stupisce invece la dichiarazione di Bersani, un ex ministro dell’Industria e dell’energia, che sembra contraddire la sua azione forte e trasparente, a sostegno delle società energetiche italiane per garantire l’approvvigionamento del paese. Oggi sembra anteporre la logica degli schieramenti interni di partito all’interesse nazionale.

 

Ci sono scelte apparentemente contingenti che assumono il carattere di valori fondanti, che vanno a incidere sul Dna di una “ditta” o di un movimento. In questo, caso sembra che una parte fondamentale della sinistra storica italiana stia estirpando un pezzo determinante della sua tradizione, quella che guidò gli operai a difendere le fabbriche alla fine della Seconda guerra mondiale. In un momento in cui le accuse di mutazione genetica vengono lanciate con facilità sarebbe utile misurarsi sul terreno delle scelte concrete e non sui paradigmi dell’opportunità e della dialettica.