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La potenza di una fotografia spiegata dall'attentato ad Ankara

Giulia Pompili

“La giusta distanza” è ciò che conferisce dignità a una scena di terrore. Parla il fotografo Giovanni Chiaramonte

Roma. Uno sfondo bianco, neutro. Alcuni quadri attaccati alle pareti. Un giovane uomo, in completo nero, cravatta nera, alza il dito indice alla fine del braccio sinistro, le gambe divaricate, nella mano destra impugna una pistola. Accanto a lui, steso, il corpo di un uomo. Per terra un paio di occhiali da vista volati via nella caduta, e in fondo alla sala un gruppo di persone accovacciate, terrorizzate, che si compongono magnificamente in una rappresentazione quasi caravaggesca. Le fotografie dell’attentato che è costato la vita, l’altro ieri, all’ambasciatore russo in Turchia Andrey Karlov hanno colpito per la loro potenza scenica, quasi surreale, ovvero simbolica. La rappresentazione di una realtà molto più simile a un set cinematografico, o a un’istallazione artistica.

La storia è fatta di immagini iconiche – per restare in Turchia, pensiamo al tentato golpe senza le fotografie dei carri armati sul ponte sul Bosforo. Eppure, le immagini degli attentati terroristici più recenti, specialmente in occidente, sembrano ormai quasi tutte somigliarsi: il video sgranato ripreso da un passante con lo smartphone è la prima testimonianza del camion che piomba sulla folla a Berlino, ed è identico a quelli di Nizza di luglio scorso. Le foto dei vetri rotti della redazione di Charlie Hebdo come quelli dell’aeroporto di Bruxelles e di Istanbul, il sangue di fronte al Bataclan di Parigi e le immagini del ristorante di Dacca. Cambia l’ambientazione, i protagonisti, la drammaticità della scena, ma il rumore di fondo è sempre lo stesso. Le fotografie dell’assassinio dell’ambasciatore Karlov, invece, hanno qualcosa di diverso, proprio nella loro strana composizione quasi finta, artificiosa. Rappresentano un momento di svolta nei rapporti tra Russia e Turchia, ma anche qualcosa di più generico: il terrore, l’aggressione inaspettata, perpetrata da un giovane dall’aspetto elegante, che risponde ai nostri canoni di bellezza, mentre l’uomo di governo è a terra, con la cravatta riversa. Non c’è sangue a terra, si intravede appena.

A scattare quelle immagini (sono una serie, ognuna con un suo preciso messaggio) è stato Burhan Ozbilici, un fotografo dell’agenzia Associated Press che lunedì sera si trovava all’inaugurazione della mostra di fotografie “From Kaliningrad to Kamchatka”, dove era previsto l’intervento dell’ambasciatore russo. Ha raccontato ieri di essersi fermato all’inaugurazione perché “passava di lì”, non era in servizio. Quando l’uomo, poi identificato come il ventiduenne Mevlut Mert Altintas, ha iniziato a sparare, e Karlov è caduto, Ozbilici ha iniziato a scattare: “Ho trovato un riparo dietro un muro e mi sono messo a fare il mio lavoro”. “Un fotografo non registra solo l’evento cui assiste, perché l’immagine fotografica è anche traccia del pensiero, del sentimento che l’uomo, il fotografo, prova in quel momento – dice il fotografo Giovanni Chiaramonte, che si occupa da tempo anche di fotografia di guerra – Una foto è sempre una reazione umana, movimento della coscienza e dell’occhio”.

Le immagini di Ozbilici, dunque, servono come pausa di riflessione: “La dignità formale dell’inquadratura che ha scelto permette davvero di riflettere sulla morte. Avrebbe potuto avvicinare l’obiettivo, indugiare, ma non l’ha fatto. Ha scelto quel rettangolo, che è diventata la scena”. Abbiamo visto altri corpi, negli anni, divenuti immagini iconiche. Qualche tempo fa, per esempio, la fotografia di Aylan, il bambino trovato sulla spiaggia di Bodrum, aveva scosso le coscienze di mezzo mondo. Per Chiaramonte quella foto è diversa: “Un fotografo che sa qual è la responsabilità della fotografia. Ad Ankara il fotografo non era il regista della scena. Credo che nel caso del bambino sarebbe stato necessario una maggiore distanza – non è un caso se la prima reazione dell’uomo quando incontra un cadavere è quella di mettergli un velo, non permettere che la curiosità e il gusto del macabro dia corso. La grandezza dei fotografi di guerra è quella di rivelare, dietro il velo della pietà, il dramma che avevano di fronte. Non bisogna mai usare il dramma e il corpo ferito per indurre l’osservatore a un sentimento di compassione, opera della retorica”. E’ per questo che le fotografie di Ozbilici hanno una potenza diversa, perché “il corpo morto è nella dignità della sua corporeità, che non è offesa da uno sguardo invadente, e c’è una distanza giusta”. E poi, un altro dettaglio. L’assassino, l’attentatore, secondo Chiaramonte è rappresentato con rispetto, non è mostrificato ma è “un uomo che ha appena ucciso qualcuno per una causa. Il codice d’onore della civiltà occidentale è da secoli proprio questo: il rispetto per il nemico”. E’ anche per questo che le immagini di propaganda dello Stato islamico sono solo sangue e morte.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.