Perché Aung San Suu Kyi ha scelto di respingere le accuse di genocidio

Massimo Morello

    Bangkok. “Una cosa è certa: il genocidio non si genera in un vuoto”, ha detto Abubacarr Marie Tambadou, ministro della Giustizia del Gambia, presentando alla Corte internazionale di giustizia (Icj) dell'Onu all'Aia la causa relativa “all'applicazione della convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio”. Il Myanmar lo avrebbe perpetrato nei confronti dei Rohingya, uomini donne e bambini di quell'etnia che nell'immaginario collettivo è divenuta l'archetipo di una minoranza perseguitata, stuprata, dall'identità negata. Del silenzio e della negazione di quello che è stato rappresentato come il genocidio dei Rohingya, secondo Tambadou, è tanto complice quanto colpevole Aung San Suu Kyi, colei che, esattamente ventotto anni fa, il 10 dicembre 1991, era stata protagonista assente del Nobel per la Pace, assegnatole per la sua lotta in difesa della libertà e dei diritti umani nel paese noto come Birmania.

    Aung San Suu Kyi ieri ha presentato la difesa del suo paese. Come è stato scritto, ha deciso di “difendere l'indifendibile”. Lo ha fatto nell'unico modo possibile: dando ai fatti una diversa interpretazione, modificando in modo significativo quella massa d'informazioni che ha ormai superato la soglia critica e determinato un'opinione tanto diffusa quanto univoca. Aung San Suu Kyi ha delineato una situazione ben più complessa: quella di una regione – il Rakhine, al confine col Bangladesh, teatro di questa vicenda – in cui si scontrano tensioni etniche e religiose, milizie finanziate dal narcotraffico, lotte tra poveri ed eredità coloniali incancrenite. Una situazione in cui l'esercito nazionale deve far fronte sia all'Arakan Army, le milizie buddiste che rivendicano l'indipendenza dell'Arakan (antico nome del Rakhine), sia all'Arakan Rohingya Salvation Army, gruppo Rohingya che sembra collegato a formazioni islamiche. Secondo alcuni analisti, la stessa questione Rohingya sarebbe alimentata da lobby islamiche che puntano a creare una sfera di influenza estesa dal Bangladesh sino all'Indonesia (non è un caso che in molte aree, come la provincia indonesiana di Aceh, sia già in vigore la Shariah più rigorosa), sorta di versione soft del Califfato in sud-est asiatico predicato dall'Isis. Un'ipotesi che spiegherebbe anche l'azione intrapresa dal Gambia: il piccolo stato africano, infatti, guida la causa a nome dei 57 paesi che compongono l'Organizzazione per la cooperazione islamica. Un'organizzazione per la quale la Shariah è punto di riferimento legale.

    Secondo altri osservatori – soprattutto residenti stranieri in Birmania – il caos in Rakhine è determinato dalle narcomilizie etniche che non solo si finanziano col traffico di droga ma che in questo trovano la loro legittimazione, che così possono gestire meglio i propri traffici, porsi come mediatori con chiunque voglia investire in quelle zone, garantire la sicurezza delle vie che le attraversano (fattore decisivo, per esempio, per i cinesi che in Rakhine trovano il loro sbocco sull'Oceano Indiano).

    Al centro di questi giochi di potere, Aung San Suu Kyi fa quello che sa fare meglio, quello che ha fatto per i quasi vent'anni trascorsi in arresto: resiste. Nel paese sta riconquistando quel favore che aveva in parte perduto (proprio perché giudicata troppo morbida nei confronti del Rohingya). Un consenso che le permetterà di presentarsi in posizione di forza alle elezioni del prossimo anno. Magari precedute da una riforma costituzionale che le consentirebbe di essere eletta presidente. Nella sua visione, forse, tutto ciò potrebbe portare a compimento il sogno di suo padre, il generale Aung San: un accordo di pace con tutte le etnie. In questo momento il processo dell'Aia non riveste particolare importanza per la Signora a livello interno. Anzi. Ma potrebbe avere effetti devastanti a lungo termine amplificando le tensioni etniche e inter-religiose. Le vie dell'inferno potrebbero passare proprio per la capitale olandese.

    Massimo Morello