Mafia all'angolo

    M entre i padrini corleonesi morivano in carcere, sepolti al 41 bis fino all'ultimo respiro, i perdenti della guerra di mafia degli anni Ottanta tornavano in Sicilia. Gli Inzerillo riconquistavano un posto di primo pano nella nuova Cosa Nostra palermitana. Il carcere è oggi il loro approdo, proprio come per gli acerrimi nemici Totò Riina e Bernardo Provenzano.

    Lo stato anni dopo avere cancellato la declinazione stragista della mafia, ha prima azzerato con un blitz dei carabinieri di fine 2018 la ricostruenda cupola di Cosa Nostra e oggi la squadra mobile e lo Sco completano l'opera, arrestando diciannove persone, tra cui Tommaso e Francesco Inzerillo. E' una linea di successi investigativi che non conosce pause. Ci si concentra sui buchi neri del passato, su cui è doveroso fare luce, si alimentano misteri e complotti, si mettono sotto accusa i manigoldi in divisa che hanno trattato con i boss, e si dimentica che lo stato ha vinto. Già, lo stesso stato che si vuole infestato di infedeli scesi a patti con il diavolo non ha mai smesso di combattere la mafia e l'ha messa all'angolo. I boss finiscono in carcere, scontano le pene, vengono scarcerati e gli investigatori sono già alle loro calcagna. Senza tregua. E' solo una una questione di tempo. Prima o poi torneranno in carcere.

    Oggi è toccato a due nomi che richiamano il passato. Francesco e Tommaso Inzerillo sono rispettivamente fratello e cugino di Salvatore Totuccio Inzerillo, il secondo boss, dopo Stefano Bontate, a cadere sotto i colpi dei kalashnikov dei corleonesi che avanzavano su Palermo.

    Degli Inzerillo diceva Totò Riina sulla terra neppure il seme doveva rimanere. Andavano sterminati tutti. Fu una strage. Alla fine di morti se ne contarono ventuno. A cominciare dal potente boss di Passo di Rigano, Totuccio Inzerillo. I killer attesero che scendesse dall'appartamento dove si era intrattenuto con una donna. Non fece in tempo a salire sulla sua Alfetta blindata. Da qui la grande fuga in America per scampare allo sterminio.

    Il 14 gennaio del 1982 un funzionario di Polizia del New Jersey ricevette una chiamata. All'hotel Hilton di Mount Laurel, così diceva il telefonista anonimo, c'era una bomba dentro una macchina. E invece nel portabagagli c'era il cadavere congelato di Pietro Inzerillo jr, fratello di Salvatore e nipote di Antonino Inzerillo. Quest'ultimo, che viveva in America, tornò in Sicilia per cercare vendetta. La commissione provinciale di Cosa Nostra si riunì: la sua testa in cambio dello stop alla mattanza. Il 2 febbraio del 1982 la moglie di Inzerillo, Anna Gambino, denunciò alla polizia di non avere più notizie del marito. Si era allontanato quattro mesi prima dalla loro casa di Conrow Road, Delran. Nel 2010 il neo pentito Rosario Naimo raccontò che Antonino Inzerillo fu attirato in trappola dentro una salumeria, grazie alla complicità dello zio, Tommaso Inzerillo. Una ricostruzione che non reggerà, però, al vaglio dei giudici. Di sicuro gli Inzerillo non dovevano più tornare in Sicilia. E invece il blitz di oggi conferma non solo il loro rientro, ma pure il reinserimento negli affari criminali, corteggiati da quelli che un tempo erano i nemici. Come Settimo Mineo, boss di Pagliarelli che ha presieduto la nuova cupola e si è discostato della linea dura contro gli scappati. Sono stati arrestati tutti, uno dopo l'altro, e gli hanno pure sequestrato i beni. Eppure le cronache – zeppe di articoli, libri e sceneggiature –, passata la sbornia per i blitz, smetteranno presto di celebrare i successi dello Stato, che vince ma non fa tendenza. Nel frattempo le operazioni antimafia ci consegnano lo spaccato di una Palermo maleodorante che si piega ai mammasantissima di turno per risolvere faccende di basso profilo. Mafiosi e non si nutrono della stessa sub cultura. E' la battaglia sociale che si sta perdendo, mentre lo stato celebra l'ennesimo successo contro la mafia.

    Riccardo Lo Verso