C'erano una volta i gilet gialli

In Francia i catarifrangenti stanno scomparendo, restano gli stanchi, i delusi e i pentiti Parabola di un movimento che voleva distruggere l'Eliseo e ha distrutto se stesso

Mauro Zanon

    Q ue reste-t-il des gilets jaunes?” si chiede la stampa parigina parafrasando Charles Trenet, all'indomani del trentunesimo atto della protesta gialla che ha radunato appena 7 mila persone in tutta la Francia. Erano 280 mila il 17 novembre scorso, quando per la prima volta vennero allestiti i picchetti sulle rotatorie dell'Esagono, bloccate le strade e le autostrade, occupate le fabbriche e attaccati i centri decisionali dell'élite, quando per la prima volta una marea di persone in gilet catarifrangente marciò sugli Champs-Elysées al grido di “Macron démission”, quando Jean-Luc Mélenchon e Marine Le Pen, i due leader estremi di sinistra e destra, sgomitavano per strumentalizzarli e intestarsi la protesta-dal-basso che odorava di diesel e jacquerie. Ma dopo sette mesi, la mobilitazione si è già divisa per quaranta, i leader storici sono scesi tutti dal carro e il risultato catastrofico ottenuto dalle tre liste gialle alle elezioni europee 0,58 per cento in totale, ha scoraggiato anche gli ultimi resistenti che credevano di fare la révolution con i social network. Di gilet irriducibili, tuttavia, ne esistono ancora. E dicono che il movimento è molto più ampio del numero di manifestanti che continua ogni sabato, contro ogni intemperia, a sfilare nelle strade di Francia per denunciare il “presidente dei ricchi”, il “fottuto banchiere” (copyrights Mélenchon) di cui non c'è da fidarsi anche se ha scucito 10 miliardi di misure per rispondere alla rabbia della provincia, anche se ha organizzato una delle più grandi consultazioni democratiche della storia del Quinta Repubblica, il Grand débat national, anche se sta facendo le riforme e risollevando l'economia dopo gli anni grigi dell'immobilismo hollandiano – secondo l'ultimo barometro di EY la Francia è balzata in seconda posizione tra i paesi più attrattivi per gli investitori stranieri sorpassando la Germania, e secondo le cifre dell'Insee pubblicate a metà maggio la disoccupazione, all'8,7 per cento, ha raggiunto il punto più basso dal 2008. La realtà, però, mostra che la rabbia del popolo in gilet che Houellebecq ha dipinto in “Sérotonine” non è riuscita a tradursi in azione politica, e se non ci fosse stata una “sovramediatizzazione delle proteste”, come la definiscono alcuni osservatori, forse non sarebbe durato così a lungo.

    Di quest'idea è anche Jean-François Barnaba, ex portabandiera della protesta gialla, che voleva presentarsi alle europee con la lista “Jaunes et citoyens”, ma per mancanza di fondi ha bussato alla porta di Florian Philippot, l'ex braccio destro di Marine Le Pen, candidatosi senza successo a Bruxelles sotto l'etichetta “Ensembles patriotes”. “I gilet gialli sono stati un tema fantastico per i canali di informazione (…) ma la verità è che il movimento è stato sovramediatizzato rispetto ai francesi che mobilitava”, ha detto Barnaba al settimanale Point. Bfm.tv, Cnews, France Info, ossia le principali reti all-news di Francia, sono state dunque le macchine che hanno tenuto in vita il movimento, nonostante gli stessi gilet le avessero prese di mira come principali “strumenti di propaganda” del governo? Non lo ammetterà mai Maxime Nicolle, soprannominato “Fly Rider” e membro dell'ala oltranzista dei gilet gialli. Anche lui, però, si è fatto più discreto da quando la protesta si è affievolita. Prima era tutto un denunciare e un inveire contro Macron e i “media corrotti” attraverso Facebook Live. Ora, invece, si limita a qualche commento, like e condivisione, senza lanciare nessun appello, senza nessun “quello che i media vi nascondono”. “Sono diventati più timidi”, ha scritto il settimanale Express, dando notizie dell'altra icona mediatica, Jérôme Rodrigues, il “gilet con la benda” trasformato in un martire dal popolo giallo da quando è stato ferito all'occhio da una pallottola di gomma dei Crs, la polizia antisommossa francese. “Manifestiamo da sei mesi: come per i poliziotti, ciò comporta molti problemi familiari, tra divorzi e bambini che chiedono di vedere i loro genitori durante il weekend”, ha spiegato Rodrigues, sviando sulle vere ragioni della crisi profonda dei gilet. Per il Monde è “l'heure du découragement”, il tempo della disillusione, della rassegnazione, dello sconforto per una mobilitazione che era iniziata con vigore ma senza guerriglie urbane, e con denunce legittime all'eccessiva pressione fiscale francese, finendo poi per diventare una protesta ottusa e senza obiettivi precisi contro Macron e tutto ciò che rappresenta, una protesta sequestrata da un manipolo di agitatori bercianti e capipopolo autoproclamati che hanno utilizzato il mal-être della Francia profonda per avere qualche giorno di gloria mediatica. Ingrid Levavasseur, la manifestante dai capelli rossi e giovane madre di 32 anni che aveva provato a normalizzare il movimento deplorando i toni bellicisti di alcuni esponenti, ha detto al Wall Street Journal che per lei l'esperienza gialla “è finita”, perché i violenti hanno preso il sopravvento e snaturato la rivolta. Jacline Mouraud, l'ipnoterapeuta bretone di cinquant'anni che con un video contro l'aumento delle accise sulla benzina proposto e poi cancellato da Macron era stata una delle ispiratrici della protesta, ha aggiunto che “il movimento ha perso la sua essenza”. Ma a marzo, dopo essersi tolta il gilet e aver fondato il suo movimento dissidente, Les Emergents, era stata molto più dura, attaccando “i molti fannulloni che si lamentano” e “gli estremisti” che hanno messo a ferro e fuoco le città per molti sabati.

    Di “deriva totale” ha parlato anche il più radicale dei gilet gialli, Éric Drouet, dove per deriva, però, intende il pacifismo dei manifestanti scesi in strada durante gli ultimi sabati. Lui vorrebbe ancora gli scontri muscolari sugli Champs-Elysées, le raffinerie occupate, le operazioni escargot attorno a Parigi, i blocchi dei caselli autostradali, l'anarchia generalizzata, vorrebbe ancora “fare irruzione all'Eliseo”, come disse lo scorso dicembre, nel momento più critico e pericoloso della protesta, quando le forze dell'ordine riuscirono a malapena a contenere i disordini e Macron e Brigitte avevano già visitato il bunker ultrasecurizzato sotto il palazzo presidenziale dove andarsi a nascondere in caso di attacco e preparato assieme ai servizi segreti un piano per fuggire in elicottero in uno scenario da film hollywoodiano. E Christophe Chalençon, il fabbro originario del Vaucluse che ha incontrato il ministro dello Sviluppo economico italiano Luigi Di Maio e ha invocato un golpe militare per rimuovere Macron? Si è presentato alle elezioni europee con la lista Evolution citoyenne ottenendo un misero 0,01 per cento – le altre due liste gialle, l'Alliance citoyenne del cantante Francis Lalanne e il Mouvement pour l'initiative citoyenne che aveva come unico punto programmatico la generalizzazione del Ric, il referendum d'iniziativa civica, hanno raccolto rispettivamente lo 0,54 per cento e lo 0,03.

    “Dal punto di vista elettorale, alla luce dei risultati delle europee, non si può che constatare la dissoluzione totale dei gilet gialli. Si sono presentati con tre liste, non con una. E hanno superato a malapena lo 0,50 per cento”, dice al Foglio il giornalista del Figaro François-Xavier Bourmaud, prima di aggiungere: “La presenza di tre liste a Bruxelles è la conferma che le loro rivendicazioni sono sempre state disomogenee e frammentarie, che il movimento non è mai riuscito a strutturarsi e a cristallizzare la rabbia attorno a dei leader identificati. Oggi, quel che resta è una contestazione residuale: è più un raduno organizzato che una rivolta sociale”. Per il politologo Jean-Yves Camus, direttore dell'Observatoire des radicalités politiques, “in termini di mobilitazione resta certamente poca roba dei gilet gialli, ma in termini politici e psicologici il discorso è diverso. Politicamente hanno spinto il governo a mettersi in discussione, ad accelerare il lancio del secondo atto del quinquennio. A livello psicologico, invece, c'è un senso di incomprensione che perdura tra i gilet e potrebbe pesare nelle future scadenze elettorali”. Secondo Camus, inoltre, non è escluso che una parte dei gilet rinunci per sempre a recarsi alle urne per esprimersi. “Ciò che temo maggiormente, è il rancore e la frustrazione che potrebbero scatenarsi non solo verso l'esecutivo e il presidente della Repubblica, ma anche verso la democrazia rappresentativa in generale. Gran parte dei gilet hanno l'impressione di essersi mobilitati per settimane senza essere ascoltati fino in fondo, senza ricevere risposte all'altezza delle loro rivendicazioni. C'è anche il sentimento che le manifestazioni siano state represse con troppa durezza dalla polizia. In alcuni casi, non c'era alternativa perché ci sono stati dei veri e propri disordini e scene di guerriglia urbana, ma altre volte ci sono stati degli eccessi che hanno causato dei feriti gravi. Per la coesione nazionale, di certo, non è una bella notizia”, osserva Camus.

    Il direttore dell'Observatoire des radicalités politiques insiste molto sul termine “frustration”, “che ha già provato di poter essere pericolosa alle elezioni europee con i voti che hanno permesso al Rassemblement national (Rn) di essere il primo partito francese a Bruxelles”. “Durante l'ultimo scrutinio, si sono viste le conseguenze della mobilitazione dei gilet. Non dico con questo che tutti i gilet hanno votato Rn, sarebbe eccessivo, ma incontestabilmente è un movimento che ha dato alla formazione di Marine Le Pen un po' di ossigeno elettorale”. Le conseguenze della “grogne”, della rabbia della Francia periferica, le vediamo già. Ma questa collera potrebbe essere raccolta ed espressa nel futuro prossimo da un movimento spontaneo simile ai gilet? “Nella forma che abbiamo conosciuto, non credo potrà ricrearsi questo tipo di protesta”, dice al Foglio Camus. “La forma di organizzazione dei gilet ha mostrato i suoi limiti. Il primo di questi limiti è stato sicuramente l'assenza di una struttura. Il secondo è stato la mancanza di una linea ben definita e di un leader che la potesse rappresentare: l'impressione è che partissero in tutte le direzioni, senza alcuna coerenza. Il terzo è l'aver lasciato che la violenza si insediasse a margine dei cortei”. E ancora: “Certo, c'è un capitale di frustrazione e di malcontento che potrebbe riemergere localmente in occasione della chiusura di qualche fabbrica o di una delocalizzazione, di un ospedale che riduce i suoi effettivi o di licenziamenti di massa, c'è qualcosa di soggiacente, ma per pesare politicamente ci vuole una struttura”.

    Quanto ha influito la reazione di Macron, i 10 miliardi di misure e il lancio Gran débat national, nell'indebolimento progressivo dei gilet gialli? “Le prime misure annunciate a dicembre hanno prodotto un aumento del potere d'acquisto. Ci è voluto un po' di tempo prima che queste misure si facessero sentire nelle tasche dei francesi, ma hanno creato benefici”, spiega al Foglio Bourmaud. “In seguito, c'è stato l'impatto del Grand débat national che ha permesso di canalizzare la parola. Infine, c'è un'usura naturale. Non poteva continuare con la stessa intensità dello scorso autunno, altrimenti Macron sarebbe già stato rovesciato”, sottolinea il giornalista del Figaro. Nonostante la fine della mobilitazione di massa, secondo Bourmaud, “potrebbe persistere una collera residuale come quella della Manif pour tous (il movimento di protesta contro le nozze e le adozioni gay consentite dalla legge Taubira, ndr) sotto il quinquennio di François Hollande”. “Fino alla fine del suo mandato, Hollande aveva sempre un piccolo gruppo di sostenitori della Manif ad accoglierlo tra i fischi durante i suoi spostamenti. Con i gilet gialli, per Macron, potrebbe accadere la stessa cosa. Nonostante l'attuale carattere ultraminoritario della protesta, rischiamo di assistere puntualmente, fino al 2022, a gruppi di gilet gialli che contestano il presidente quando si muove in giro per la Francia”.

    La crisi dai gilet è sicuramente inedita per come si è sviluppata, ma fa parte di quelle crisi sociali che la Francia “vive quasi ogni trent'anni”, dice Bourmaud. “C'è stato il 68', poi ci sono stati gli scioperi del 1995 (contro la riforma delle pensioni e della sicurezza sociale promossa dal primo ministro di allora, Alain Juppé, ndr), e oggi ci sono i gilet gialli. È uno di quei fenomeni regolari che si verifica nel nostro paese”, analizza Bourmaud, prima di concludere: “Una cosa è certa: se Macron non ottiene dei risultati economici che provano la bontà delle sue misure, ci potrebbero essere delle conseguenze sull'esito elettorale delle presidenziali del 2022. C'è ancora tempo, tre anni sono tanti, ma senza traduzione concreta delle riforme che sta portando avanti nella vita quotidiana dei francesi i gilet gialli potrebbero contestare Macron durante il voto”.