Parlare di ritorno del religioso è riduttivo: siamo davanti a un religious booming

Luca Diotallevi

    A differenza di una ventina di anni fa, in questo momento sembra addirittura riduttivo parlare di ritorno del “religioso”. Ciò cui si assiste è sempre più spesso definito dai sociologi in termini di religious booming. (La sorpresa e la fatica a comprendere mostrata dai nostri “amici” è anche in questo caso del tutto giustificata: se sono in difficoltà degli specialisti, perché non dovrebbero esserlo loro?). Con religious booming si intende un insieme imprevisto di fenomeni, anche molto diversi tra di loro, che non corrobora affatto nessuna delle ipotesi che tra gli anni 80 e 90 avevano sfidato la “teoria classica della secolarizzazione”, e neppure l'ipotesi del cosiddetto “nuovo paradigma” secondo la quale la ripresa del “religioso” dipendeva da un po' di diversificazione e da un po' di concorrenza intorno a qualcosa che restava comunque simile all'idea tradizionale di religione. Quella che torna, invece – lo si è già accennato –, è una religione non solo tanto diversa da quella data per spacciata dalla “teoria classica della secolarizzazione”, ma è anche qualcosa che si manifesta in forme estremamente varie e assai distanti le une rispetto alle altre. Insomma, sembra di essere alle prese più con gli effetti di un'esplosione imprevista che con un semplice ritorno. Di qui l'espressione: religious booming. Per tutto un gruppo di fenomeni protagonisti di questo boom, con tratti molto diversi da quelli della religione convenzionale, alcuni preferiscono parlare di “spiritualità”, e lo fanno con l'esplicita intenzione di integrare un già molto allargato, eppure ancora insufficiente, concetto di religione. D'altra parte, quello che esplode è un consumo di beni e di servizi religiosi la cui novità è sì ben rappresentata dai prodotti di alcuni nuovi marchi, ma forse lo è ancora meglio da prodotti nuovi di marchi tradizionali (le tradizioni religiose storiche, incluse quelle cristiane). E' su questo versante che meglio si coglie il carattere non solo quantitativo, ma morfologico e trasversale dell'esplosione del “religioso” cui stiamo assistendo. Altri studiosi preferiscono parlare allora di low intensity religion (religione a bassa intensità), intendendo con ciò il combinarsi di maggiore potere della domanda (democratization of religion), maggiore flessibilità dell'offerta, minore pretesa di rilevanza extrareligiosa della religione, il tutto nel quadro di una montante commodification of religion (trasformazione dei beni e dei servizi religiosi in merce o in credence goods, e del fedele in consumatore). Per dare un'idea di quanto le cose stiano cambiando, basta dire che una religione “a bassa intensità” difficilmente può risultare utile per una strategia di disciplinamento sociale, sino a non molto tempo fa considerata invece la principale funzione sociale della religione. Al fine di tener conto di tutto questo, persino esponenti della versione ortodossa della “teoria classica della secolarizzazione”, come e tra gli altri S. Bruce, parlano ora di “tarda secolarizzazione” (late secularization). Intanto, come sempre accade, le cose vengono viste meglio “da fuori” e “da lontano”: le istituzioni del commercio internazionale hanno introdotto nei cataloghi allegati ai loro trattati una nuova categoria merceologica: la religione, codice “959”.

    Anche chi non studia i fenomeni religiosi, ma si dedica all'analisi delle relazioni internazionali (International Relations, Iirr), o a quelle dei processi e degli attori economici, o studi urbanistici, solo per fare tre dei tanti esempi possibili, viene – doppiamente – sorpreso dal religious booming in corso. Per prima cosa, si ritrova senza preavviso a dover fare i conti con la religione e subito dopo si accorge di non ricevere un grande aiuto dalla sociologia della religione. La religione che si incontra ovunque appare e si comporta in modi non di rado diversi da quelli presi in considerazione dagli orientamenti prevalenti in sociologia della religione. Tipico . il caso degliIirr studies. Essi erano nati con il sorgere del sistema degli stati e dunque con la privatizzazione della religione. Ignorarla era uno degli assiomi di questi studi. Per secoli la cosa non aveva creato grandi problemi.

    Ora, invece, la difficoltà non consiste solamente nel dover cominciare a considerare anche processi, istituzioni e attori religiosi come elementi ambientali allorquando si effettuano comparazioni, ma comporta il dover fare i conti direttamente con il potere (a volte non solo soft) di un numero elevato e crescente di religious transnational actors. La lista di questi ultimi è davvero lunga. Procedendo molto sommariamente si può ricordare che include nazionalismi religiosi, forme (non solo cristiane o europee) di neoconfessionalismo (o affini), fondamentalismi di ogni matrice, esplosioni di violenza religiosa diffusa, forme di diplomazia parallela. A inaugurare questa lista fu J. Casanova che, ormai oltre un quarto di secolo fa, mostrò quanta attenzione meritavano le public religions, impiegando forse il concetto pi. indigeribile per il “modello ereditato” che potesse essere immaginato in quel momento. Ormai, secondo non pochi autori, siamo addirittura in un contesto nel quale non di rado è piuttosto la politica a doversi difendere dalla religione e non viceversa. Il lettore non deve pensare solo alle bombe fatte esplodere in nome di un qualche dio o ai successi elettorali di “partiti religiosi” (di un tipo o dell'altro), ma anche a fenomeni meno cruenti e più profondi. Ad esempio, in qualche caso il religious booming sfrutta e allarga il cuneo che già la globalizzazione aveva reintrodotto tra legge (dello stato) e diritto (delle persone). La religione si allea al diritto per sottrarre quest'ultimo alla cattività in cui lo Stato lo aveva ridotto ponendolo alla mercé della legge (come nei regimi europeo-continentali di civil law e derivati). Parimenti, gettando un rapido sguardo agli studi economici si incontrano – tra gli altri – gli argomenti di chi sostiene che la tenuta relativa del modello neoliberale dopo la crisi 2007-2008 non si può spiegare senza considerare il sostegno (ideale e pratico) che gli assicurano certi attori religiosi. Un dato come questo semplicemente ribalta l'assunto della “teoria classica della secolarizzazione” secondo il quale la religione è custode del vecchio ordine e ostacolo allo sviluppo. Una tendenza analoga può essere osservata tra gli studiosi del fenomeno urbano e in particolare delle global cities. Neppure in questo ambito manca chi denunci anche esplicitamente il “cono d'ombra” in cui le discipline in questione avevano inavvertitamente dimenticato, o intenzionalmente, confinato, la religione e i danni che questa opzione ancora produce per l'intera disciplina.

    Luca Diotallevi