Le spiegazioni psichiatriche o criminali dell'ascesa del fascismo sono sbagliate

Giuseppe Bedeschi

    I n molti articoli apparsi in questi giorni, dedicati al centenario della fondazione a Milano dei Fasci di combattimento, è stato dipinto un quadro che lascia, a dir poco, sconcertati. Antonio Scurati, per esempio, ha scritto su Repubblica (23 marzo): “Dobbiamo ricordare che esattamente cento anni fa in piazza San Sepolcro a Milano, di fronte a una platea di pochi, deliranti partecipanti, un politico sbandato alla ricerca di una strada fondò i Fasci di combattimento. Dobbiamo conoscere la storia di quella piccola accozzaglia di reduci, facinorosi, delinquenti, sindacalisti incendiari e gazzettieri disperati, professionisti della violenza, i quali – guidati da un leader pronto a ogni tradimento, a ogni nefandezza (…) nell'arco di soli tre anni conquistarono il potere”. A veder bene, queste righe di Scurati pongono un problema serio, che si può esprimere così: come è potuto avvenire che gran parte del popolo italiano abbia seguito un movimento diretto da “deliranti”, da “facinorosi”, da “professionisti della violenza”, da “delinquenti”? E come è potuto avvenire che, una volta giunto al potere, il fascismo, cioè un movimento delinquenziale, abbia goduto di un vasto consenso? L'unica risposta che si può dare, sulla base del quadro tracciato da Scurati e da altri, è che la maggioranza del popolo italiano, nei primi anni Venti del secolo scorso, fu sopraffatta da istinti criminali, da passioni sciagurate, dal gusto della prevaricazione e della violenza. Temo, però, che questa risposta sia, a dir poco, semplicistica, incapace di dare ragione delle cause profonde che stanno all'origine dell'affermarsi del fascismo e poi della sua ascesa al potere. Intanto c'è un problema, che Scurati, e molti altri, ignorano: come mai molti eminenti esponenti della cultura italiana aderirono al fascismo? Se scorriamo l'elenco dei firmatari del “Manifesto degli intellettuali fascisti” (reso noto dai giornali il 21 aprile 1925), redatto da Giovanni Gentile, troviamo, fra gli altri: Widar Cesarini Sforza, Salvatore Di Giacomo, Ugo Ojetti, Alfredo Panzini, Luigi Pirandello, Ildebrando Pizzetti, Giuseppe Saitta, Ardengo Soffici, Ugo Spirito, Curzio Malaparte, Lionello Venturi, Gioacchino Volpe. Ma si potrebbe ricordare che furono fascisti (anzi, fascistissimi) grandi storici e filosofi come Delio Cantimori, Nicola Abbagnano, Antonio Banfi, Arnaldo Momigliano, Galvano Della Volpe.

    Del resto, anche il più grande filosofo italiano del Novecento, Benedetto Croce, accolse il fascismo con molto favore, e votò la fiducia in Senato al governo Mussolini anche dopo il delitto Matteotti. Nel luglio 1923, in una intervista rilasciata al Giornale d'Italia, Croce aveva dichiarato: “Stimo un così grande beneficio la cura a cui il fascismo ha sottoposto l'Italia, che mi do pensiero piuttosto che la convalescente non si levi troppo presto di letto, a rischio di qualche grave ricaduta”. E dopo il delitto Matteotti, in una intervista allo stesso giornale, nel luglio 1924, Croce dichiarò che sarebbe stato profondamente sbagliato desiderare che “il fascismo cadesse a un tratto”, poiché esso non era stato “un infatuamento o un giochetto”, bensì aveva risposto a “seri bisogni” e aveva fatto “molto di buono”, come “ogni animo equo” non poteva non riconoscere. (Croce passò all'opposizione quando Mussolini soppresse le libertà statutarie). Giovanni Amendola, a sua volta, dichiarò ai primi di ottobre del 1922 (dunque alla vigilia della marcia su Roma) che dopo l'occupazione delle fabbriche (settembre 1920), cioè dopo “il più grandioso tentativo rivoluzionario mai messo in atto da parte comunista in Italia”, il fascismo aveva avuto il merito di aver risparmiato “alla patria nostra l'esperienza mortale del leninismo”. E ancora: “Se noi vogliamo che il nostro giudizio resti superiore alle correnti delle opposte passioni, dobbiamo infine riconoscere che il ‘fatto' fascismo accompagna una salda e radicale restaurazione della coscienza nazionale quale rampolla dalla vittoria, e un consolidamento nell'anima italiana del valore morale della nostra partecipazione alla Grande Guerra”.

    Il riferimento fatto da Amendola alla occupazione delle fabbriche è assai importante. Il nostro più grande storico della seconda metà del Novecento, Rosario Romeo, recensendo il libro di Paolo Spriano su “L'occupazione delle fabbriche” (Einaudi, 1964), respinse il giudizio positivo dello stesso Spriano sull'operato di Giolitti in quella vicenda. “A noi pare – scriveva Romeo – che sullo statista piemontese pesino invece gravi responsabilità. Già l'atteggiamento di neutralità in un conflitto che fin dall'origine si annunciava assai teso, con ostentazione di armi da parte degli occupanti, numerosi e ripetuti sequestri di impiegati e dirigenti industriali, pattugliamento non solo degli stabilimenti, ma anche delle zone cittadine circostanti da parte delle guardie rosse, minacciava di spingere le due parti in contrasto all'urto e al confronto diretto, con uno stato che ormai si rifiutava di fare persino da ‘guardia notturna'”. Successivamente – aggiungeva Romeo – l'imposizione dell'accordo agli industriali, attraverso la minaccia del ritiro del credito ai riluttanti, effettuata dalle grandi banche su precisa richiesta del governo, ebbe certamente un peso di molto rilievo nel determinare quella sfiducia nello stato da parte della borghesia italiana che fu decisiva nell'avviare il sempre più aperto ricorso all'azione diretta, cioè al fascismo, nei mesi successivi. E non solo, si badi, da parte degli industriali danneggiati, ma anche da parte di gente di piccola e media condizione, fin qui estranea alla lotta perché fiduciosa nei poteri dello stato, e ora trascinata alla reazione. Alla “grande paura” per la minaccia bolscevica si aggiungeva lo sdegno per l'atteggiamento aggressivo e oltraggioso verso gli ufficiali che avevano combattuto nella Grande Guerra. Valga la testimonianza di Ernesto Rossi: egli era stato interventista, e diventò un fascista della prima ora (collaborerà al Popolo d'Italia fino alla marcia su Roma, per passare poi all'antifascismo dopo il delitto Matteotti). “I socialisti – rievocò – presentavano nei loro giornali tutti gli ufficiali reduci dalla guerra – anche gli ufficiali di complemento – come delinquenti, nemici del proletariato, mercenari al servizio della borghesia. Io ero andato volontario in guerra, in fanteria, perché convinto che, se il militarismo tedesco avesse vinto, avrebbe messo sulla testa di tutti gli italiani l'elmo col chiodo ed avrebbe soffocato i diritti di libertà in Europa per tutta un'epoca; avevo perduto al fronte il mio fratello maggiore e i miei migliori amici; ero tornato dal fronte mutilato di guerra. Non potevo ammettere che i socialisti (…) offendessero la memoria dei nostri morti e sputassero sui nostri sacrifici”.

    E' in questo quadro che vanno cercate le radici del fascismo come movimento politico di massa. Ciò significa forse assolverlo? Dimenticare che esso soppresse la democrazia in Italia, che consegnò il nostro paese alla Germania hitleriana, che aggredì vilmente la Francia già messa in ginocchio dalle armate naziste, che emanò le infami leggi razziali? No, certamente no. Significa solo che gli avvenimenti storici devono essere compresi in tutti i loro aspetti, e che non se ne può dare una spiegazione soltanto psichiatrica o criminologica. E si può (anzi, si deve) aggiungere che solo la comprensione degli avvenimenti storici in tutti i loro aspetti può aiutarci a non cadere nei fatali errori del passato.

    Giuseppe Bedeschi