Tomaso ficcanaso

Il ritorno in Toscana di Montanari, che ora punta agli Uffizi. Tutte le acrobazie dello storico dell'arte che tentò la via della politica

David Allegranti

    Non se ne salva uno dalle grinfie twittarole di Tomaso Montanari, storico dell'arte con rodata passione per la politica, laddove non si capisce più dove finisca l'accademico normalista e inizi l'agit-prop paragrillino, che poi era lo stesso problema di Massimo Recalcati ai tempi di Matteo Renzi, pronto a sbracare quando psicanalizzava i suoi avversari. Di recente il Montanari, verboso come pochi, se l'è presa con Franco Zeffirelli, sfruttando una sferzante dicitura di Ennio Flaiano: “Si può dire che il maestro Scespirelli era un insopportabile mediocre, al cinema inguardabile? E che fanno senso gli alti lai della Firenzina, genuflessa in lutto o in orbace, ai piedi suoi e dell'orrenda Oriana?”. E il problema non è la storpiatura del cognome – genere glorioso che appartiene appunto ai Flaiano e ai Fortebraccio, e ancorché negli anni sputtanato da Marco Travaglio non per questo è da buttare – bensì il fatto che il coraggioso Montanari abbia colto l'occasione della morte del regista per spandere le sue velenose arguzie su Internet. Ma Montanari, classe 1971, uno che si piace da morire (solo Dibba è più autocompiaciuto di lui), è fatto così; la boria lo accompagna dai tempi del ginnasio, il liceo Dante di Firenze, quando era rappresentante d'istituto con il futuro banchiere Cosimo Pacciani e il futuro regista Federico Micali (nello stesso liceo di Renzi, Paolo Hendel e Piero Pelù: Firenze produce showman a ogni livello). Montanari, a scuola conosciuto come “Tomaso ficcanaso”, è uno di quelli che ritengono sia sufficiente essere competenti in un campo, come Caravaggio e la Storia dell'arte, per farsi portatori di progressive e magnifiche sorti anche altrove; per “rimettere in piedi la sinistra” ed essere parecchio assertivi nei confronti dell'universo mondo. Basta leggere sul sito di Repubblica un suo non più aggiornato blog, “Articolo 9” (come Costituzione italiana insegna) per compulsarne le molte esortazioni: “Stadio della Roma: Bonisoli deve azzerare il Mibact”; “Il soprintendente di Roma Francesco Prosperetti si deve dimettere”; “Paolo Berdini deve restare”.

    Chi l'ha conosciuto al liceo racconta che è rimasto lo stesso attaccabrighe di un tempo. Già da ragazzino Montanari aveva ambizioni da leader politico, coltivate per anni fino alla tragicomica esperienza del Brancaccio, quando il Nostro nel 2017 lanciò una “coalizione civica nazionale di sinistra” con Anna Falcone e nel suo discorso citò anche il maestro Salvatore Settis: “Vogliamo costruire una vera ‘azione popolare'”. Azione popolare ma senza popolo: è il problema di tutti i rivoluzionari da salotto.

    Adesso il Montanari è tornato a lavorare in Toscana; dopo aver insegnato a Tor Vergata a Roma e alla Federico II a Napoli, dall'anno scorso è ordinario all'Università per Stranieri di Siena (peraltro è anche contradaiolo dell'Oca, come il babbo Elio, che è membro del Consiglio di sedia della contrada e filologo in pensione dell'Università di Firenze; anche lui ha fatto il Dante). Da pochi giorni è stato nominato nel comitato scientifico degli Uffizi (con una zeta), ma siccome Tomaso (con una emme) non si accontenta, è pronto a diventarne il capo. E' di questa settimana l'annuncio del ministro per i Beni culturali Alberto Bonisoli, grillino, che prevede l'accorpamento della Galleria dell'Accademia con gli Uffizi e la conseguente nomina di un unico direttore. Montanari, una volta completata l'operazione, potrebbe persino prendere il posto del tedesco Eike Schmidt, contro il quale in passato si è scagliato più volte, non facendosi mancare però anche dei begli abbagli. Come quando nel 2016 lo attaccò per un presunto “addio al celibato” a Palazzo Pitti: “Ci saranno anche le spogliarelliste?”, scrisse Montanari sull'edizione fiorentina di Repubblica. “E' quel che ci si chiede, increduli, attraversando il meraviglioso Cortile dell'Ammannati di Palazzo Pitti, violato dall'ennesima baracconata privata. Questa volta, infatti si tratta nientemeno che di un ‘addio al celibato', organizzato dalla società Palazzigas Events”. Schmidt però precisò che non c'era nessun addio al celibato e che si trattava di una cena aziendale il cui canone prepagato (70.500 euro più altri 13 mila per il personale) fu “utilissimo per restauri e ammodernamenti”. Ma, in fondo, chissenefrega della corrispondenza dei fatti alla realtà; l'importante per Montanari è dire che a Firenze c'è il direttore degli Uffizi che prostituisce l'arte. Non una novità assoluta, visto che già Giovanni Papini nel 1913 descriveva una Firenze prigioniera delle sue rendite di posizione, senza però il moralismo di Montanari: “Firenze ha la vergogna d'essere una di quelle città che non vivono col lavoro indipendente dei loro cittadini vivi ma collo sfruttamento pitocco del genio dei padri e della curiosità dei forestieri”. Ormai, aggiunse Papini, “non sappiamo fare altro. Metà dei fiorentini campa direttamente alle spalle degli stranieri e l'altra metà vive alle spalle di quelli che campano alle spalle dei forestieri”.

    Per Montanari a Firenze tutti si prostituiscono per qualcosa. Dall'odiato Matteo Renzi, che pure gli aveva dato un palco alla Leopolda del 2011 (“Oggi accanto alla Costituzione ma contro la Costituzione c'è un accordo non scritto ma ferreo che permette a moltissimi italiani di non pagare le tasse”, e giù applausi), all'odiato Giuseppe Betori, cardinale e arcivescovo di Firenze. Ecco, se Renzi è colpevole, fra le tante cose, di aver mandato la Lega al governo opponendosi a un accordo Pd-Cinque stelle, per il quale Montanari si era speso giudicando il partito di Salvini colluso con il fascismo e firmando anche uno dei soliti “appelli degli intellettuali” (ma non risultano analoghi appelli al M5s per evitare l'alleanza con la Lega), Betori è stato accusato nel 2011 di praticare un lascivo scambismo artistico e di fare pressione sulla Soprintendenza di Firenze, “notoriamente proclive a compiacere le richieste altolocate”, mettendo a repentaglio il patrimonio dell'arte. Da notare lo stile travagliesco del Montanari: “Complici le celebrazioni dell'Anno della cultura e della lingua italiana in Russia, è Mosca il teatro più ricorrente di simili scambi: dopo aver ricevuto la Dama con l'unicorno di Raffaello, la delicatissima Medusa di Bernini, e la Pallade e il centauro di Botticelli, la capitale russa è ora in attesa di quelle escort da viaggio che sono ormai divenuti i Caravaggio siciliani. Tra i vari scambisti che in questi mesi gettano fior di capolavori nel metaforico lettone di Putin, si contano anche degli insospettabili: come l'arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori e l'austero storico della chiesa, nonché editorialista del Corsera, Alberto Melloni. A quest'ultimo si deve, infatti, l'organizzazione dell'evento: ‘In Cristo. Uno scambio di capolavori dell'arte e della fede tra Mosca e Firenze'”. Lo scambio consisteva nella Croce di Lippo, troppo delicata per volare a Mosca scrisse Montanari, e un Rublëv a Firenze. Non fu un caso isolato, visto che Betori per Tomaso non è solo arcivescovo ma pure arcinemico. In altre occasioni lo ha accusato, come fosse un assessore ai lavori pubblici qualunque, di non permettere ai musulmani di avere una loro moschea a Firenze (“Troppe volte Giuseppe Betori è intervenuto dicendo no: al minareto, alla grande moschea unica, alla moschea in centro”).

    Insomma, come detto, Montanari non ne salva uno. Non salva Zeffirelli, la Fallaci, Renzi, Betori, non ce n'è uno che gli vada bene, a Tomaso ficcanaso. Non gli va bene neanche “la sinistra”, diceva nel 2017, e infatti c'era lui a dare la linea, spiegando che “la sinistra deve imparare qualcosa dallo spirito originario del M5s, secondo cui non bisogna essere professionisti per fare politica”. Per questo a Roma nel 2016, rifiutando “seppur a malincuore” l'offerta del M5s di fare l'assessore alla Cultura (anche Massimo D'Alema lo chiamò per convincerlo), disse che se fosse stato cittadino romano avrebbe votato al ballottaggio per Virginia Raggi, di cui volle “sottolineare il valore politico” della sua proposta: “Mi riconosco nei valori della Sinistra. Non ho mai votato Cinque stelle, e se avessi votato a Roma, al primo turno avrei votato per Stefano Fassina. Ma è un dato di fatto che in questi anni, nelle tante battaglie per la difesa dell'ambiente, del territorio e del patrimonio culturale, ho sempre trovato dall'altra parte della barricata un sindaco o un presidente di regione del Pd o di Forza Italia (purtroppo spesso indistinguibili). E, invece, dalla mia parte e senza che li cercassi, c'erano immancabilmente i cittadini che si riconoscono nel Movimento Cinque Stelle. E' da questa oggettiva convergenza su alcuni valori, è da ciò che ho scritto nei miei libri, che è nata l'idea di rivolgersi a me”. A distanza di tre anni – tre anni di una Roma grillina ancora più sporca, degradata e imbruttita – abbiamo avuto la dimostrazione che Montanari e la politica sono due linee rette destinate a non incontrarsi mai. E ha quasi ammesso di aver sbagliato, il Tomaso, a scambiare il M5s per una costola della sinistra. In un'intervista a MicroMega ha descritto il partito di Luigi Di Maio come uno “sgabello” della Lega. Si badi bene però che la colpa è sempre di Renzi: “Forse – ha detto nell'intervista datata novembre 2018 – c'era solo un grande equivoco, forse aveva ragione chi diceva che era una forza naturalmente di destra. Se è così si sono sbagliati in milioni di cittadini di sinistra, un terzo degli iscritti alla Cgil, per esempio, che hanno votato i 5 stelle. Io prima del 4 marzo scrissi perché era difficile votarli, ma scrissi anche che non c'era nessuna alternativa praticabile, a sinistra, se non il non voto. Con l'alleanza con la Lega, freddamente determinata dal Pd ancora controllato dal suo carnefice fiorentino, il Movimento ha imboccato una strada terrificante”. Non solo, ha aggiunto Montanari, “per il cedimento alla politica razzista e a tratti francamente neofascista di Salvini, ma anche per l'oblio delle sue battaglie storiche. Per l'oblio di se stesso”. Dunque è colpa dell'ex segretario del Pd se il M5s ha preferito il matrimonio d'interesse con Salvini.

    E' fatto così, il Montanari. Lancia progetti che non trovano consistenza, appoggia candidati e simpatizza per movimenti che si rivelano disastrosi (ma la responsabilità ovviamente è sempre di altri), blatera in continuazione di Costituzione dimostrando di non conoscerne granché le fondamenta. Una volta infatti l'incauto professore, che è stato anche presidente di Libertà & Giustizia, da aprile presieduta dal fiorentino acquisito Paul Ginsborg, spiegò in un'intervista al Fatto che “la Costituzione l'ha scritta un'assemblea di non professionisti”. Come no: Carlo Sibilia, Paola Taverna e Luigi Di Maio sono i Luigi Einaudi, Giorgio La Pira, Amintore Fanfani, Costantino Mortati, Palmiro Togliatti, Giovanni Leone, Piero Calamandrei e Meuccio Ruini di oggi. Capirete bene, insomma, che l'unico modo per piacere a Montanari è essere Tomaso Montanari. Lo spiegò chiaramente in un bisticcio telematico anche al presidente dell'Emilia Romagna Stefano Bonaccini, dicendogli che il Pd era già stato “giudicato dal suo popolo: Bonaccini eletto con il 49,01 per cento del 37,71 per cento. Cioè l'80 per cento dei cittadini la pensa come me”. C'è chi crede di essere Catherine Deneuve e chi Tomaso Montanari.

    • David Allegranti
    • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.