Noi di madrelingua

Prima c'erano i dialetti e gli italiani tra loro non si capivano, adesso c'è una lingua bellissima. L'ho capito dopo aver studiato russo

    Non so se vale per tutti, ma a me è successo che, quando ho cominciato a studiare una lingua straniera, il russo, ho cominciato a ragionare sulla storia della lingua italiana e mi sono accorto di com'erano diversi gli italiani che ho sentito parlare nella mia vita, per esempio l'italiano di mia nonna e quello di mia figlia, che sono nate a novant'anni di distanza l'una dall'altra.

    La lingua madre di mia nonna, che è nata nel 1915, era il dialetto di Basilicanova, un paesino in provincia di Parma, e l'italiano, per lei, è stata prima una lingua scritta e poi una lingua parlata: l'italiano per mia nonna era la lingua della scuola, una lingua con la quale mia nonna non ha mai fatto del tutto la pace (ha fatto la terza elementare, poi, sedicesima di diciassette fratelli, è dovuta andare a servizio a Parma e ha smesso di studiare). C'erano certe parole che mia nonna non riusciva a pronunciare, il boiler l'ha sempre chiamato “bolide”, fino alla fine della sua vita, e usava certe espressioni, diceva: “è passata un'ambulanza a sirene spietate”, tanto bella quanto imbarazzante, a sentirla pronunciare.

    La lingua madre di mia figlia, che è nata a Bologna nel 2004, è l'italiano, il dialetto mia figlia non l'ha mai sentito (io e sua mamma, che è di Bologna, se parlassimo in dialetto parleremmo due dialetti diversi, quindi parliamo in italiano) e l'altra lingua di mia figlia è l'inglese, e, lo dico per vantarmi, mia figlia, che fa la prima liceo scientifico, la sua pagella, che ha ricevuto la settimana scorsa, ha preso dieci in inglese.

    Quando ho visto il voto le ho detto: “Ma tu, lo studi, l'inglese?”. “Un po' sì, – mi ha detto lei, – ma soprattutto guardo le serie televisive in originale e leggo i libri in inglese”.

    E dipenderà da quello che ho studiato, ma la condizione di mia figlia e quella di mia nonna mi sembra abbiano molto a che fare con la condizione dei servi della gleba e dei nobili russi dei primi dell'Ottocento.

    Quando mi chiedono come mai ho studiato la lingua russa, io rispondo che è per via del fatto che mi piace molto la letteratura, e quando mi chiedono come mai mi piace la letteratura russa, io rispondo che è per via del fatto che è bellissima.

    E che, intorno alla letteratura russa, ci sono tante di quelle storie che non si finirebbe mai di raccontarle, e che queste storie sono fatte con una lingua talmente viva e antiretorica e antiscolastica che le mantiene giovani, mi verrebbe da dire.

    Una di queste storie è quella di Nikita Murav'ëv, e io l'ho sentita raccontare da Jurij Lotman, in un libro che si intitola Conversazioni sulla cultura russa.

    Nikita Murav'ëv, nel 1825, è stato uno dei protagonisti della prima rivoluzione russa, la rivoluzione del 1825, quella dei decabristi, e di lui Lotman racconta che nel 1801, quando Murav'ëv aveva sei anni, era a un ballo per bambini, e stava appoggiato al muro, e quando la mamma gli aveva chiesto “Ma come mai non balli?”, lui gli aveva risposto: “Ma gli antichi romani ballavano?”.

    E la mamma gli aveva detto che gli antichi romani, quando erano piccoli, ballavano, e allora Murav'ëv era andato a ballare, perché lui voleva essere un antico romano.

    Qualche anno dopo, nel 1812, quando le truppe di Napoleone hanno invaso la Russia, Murav'ëv aveva sedici anni, era troppo giovane per combattere, ma voleva, combattere, lui era un antico romano, gli antichi romani combattono, allora era scappato di casa per unirsi all'esercito russo.

    Lotman dice che questo ragazzo sapeva già molte cose, i suoi precettori l'avevano preparato bene alla vita: sapeva la matematica, la geografia e diverse lingue straniere, solo una lingua, non sapeva: il russo.

    Così, quando scappa di casa, lo catturano un gruppo di servi della gleba (russi), e, dal momento che lui non parla russo, pensano che si tratti di una spia francese.

    Dice Lotman che Nikita Murav'ëv, alla fine, riconosce il suo precettore francese, lo chiama, si chiarisce l'equivoco, i contadini lo lasciano andare e lui riparte verso la disastrosa rivoluzione della piazza del Senato di tredici anni dopo.

    Ecco Murav'ëv, e i suoi contemporanei nobili, si trovavano nella condizione in cui si trovava mia nonna nei primi anni della sua vita: erano russi, ma non conoscevano il russo, così come mia nonna era italiana, ma non conosceva l'italiano.

    Solo che in Italia, per mia nonna, come per la maggior parte degli italiani dell'epoca (De Mauro dice che nel 1861, quando c'è l'unità d'Italia, il 2,5 per cento degli italiani sa l'italiano, il resto no), per mia nonna l'italiano è prima una lingua scritta (sui banchi scuola), poi una lingua parlata; in Russia, nell'ottocento, e anche prima, per la maggior parte dei russi (i servi della gleba erano l'ottanta per cento della popolazione) il russo è prima di tutto una lingua parlata, e parlata in un territorio enorme (in Russia non ci sono i dialetti, il russo di Mosca, di Pietroburgo, di Kazan' e di Volgograd è praticamente lo stesso), e poi una lingua scritta (i russi hanno l'alfabeto solo nel IX secolo dopo Cristo).

    Conseguenza di ciò, è il fatto che la letteratura russa, dalle fiabe raccolte da Afanas'ev alle opere di Puškin, Gogol', Lermontov, Dostoevskij, Turgenev, Tolstoj, Gončarov, Čechov, Bulgakov, è perfettamente comprensibile anche a un bambino che non sia andato a scuola, perché lui, sembra strano dirlo, ma è madrelingua.

    Un bambino russo, anche nell'Ottocento, se è un servo della gleba, essendo russo, sa il russo.

    Mia nonna, invece, no.

    Mia figlia, adesso, sì.

    A metà del XIX secolo Lev Tolstoj fonda una scuola per i figli dei suoi contadini, e, nel 1862, scrive un saggio che si intitola Chi deve imparare a scrivere da chi, i figli dei contadini da noi, o noi dai figli dei contadini? e la risposta che si dà, in questo saggio, è che sono loro, i nobili, che devono imparare a scrivere dai figli dei contadini, perché i figli dei contadini, magari non sanno l'alfabeto (che comunque si impara in una settimana) però sanno parlare, e, se sai parlare, una volta imparato l'alfabeto, una settimana, puoi scrivere delle cose bellissime, e Tolstoj, che era uno che, quando gli veniva in mente una cosa, non stava mica tanto lì a tintognare, si metteva a farla, nel 1872 pubblica I quattro libri di lettura, che contengono dei racconti quasi tutti scritti dai figli dei contadini, come questo:

    “A un contadino era venuta fame. Aveva comprato un panino e l'aveva mangiato subito ma aveva ancora fame. Allora aveva comprato un altro panino e aveva mangiato subito quello, ma aveva ancora fame. Allora aveva comprato delle ciambelle, e dopo che ne aveva mangiata una si era sentito che era sazio, gli era passata la fame. Allora si era dato una manata sulla fronte e aveva detto: ‘Che stupido che son stato! Cosa li ho mangiati a fare, tutti quei panini? Per essere sazio, mi sarebbe bastato mangiare, per prima, una sola di queste ciambelle!'”.

    L'anno scorso ho curato l'edizione italiana di un'antologia, illustrata, delle favole russe di Afanas'ev, un libro destinato ai bambini e, nell'introduzione, ho scritto che quelle favole sono singolari perché non le ha scritte nessuno, perché è come se si fossero fatte da sole, come le montagne: ci sono, le montagne, ma chi le ha fatte?

    E chi lo sa, son lì da sempre, non c'è nessuno che ha visto un muratore che ha tirato su una montagna, però qualcuno la deve aver tirata su, perché è lì.

    Ecco, una favola russa di quelle che ha raccolto Afanas'ev, è proprio un po' come una montagna russa, in un certo senso, grande, eloquente, e non l'ha fatta nessuno, è venuta su con la lingua.

    Mia nonna, quando mi raccontava la sua infanzia, che erano diciassette fratelli, con dei genitori che eran mezzadri, mi diceva: “In casa nostra c'era una miseria così grande che quando siamo diventati poveri abbiam fatto una festa”.

    Un modo di dire molto bello che non aveva inventato mia nonna, era nella lingua, era una piccola montagnola parmigiana, che qualche anno fa ho fatto entrare dentro un libro di quelli che ho scritto e secondo me ho fatto bene.

    A mia figlia, che adesso ha quattordici anni, ogni tanto viene in mente di scrivere un romanzo, ne ha già cominciati diversi, il primo sei o sette anni fa.

    Una cosa singolare, dei romanzi di mia figlia, è che sono tutti al passato remoto.

    Lei, quando parla, il passato remoto non lo usa mai; quando scrive, usa esclusivamente il passato remoto: la sua lingua scritta resta molto distante dalla sua lingua parlata, nonostante appartenga a una generazione, gli italiani contemporanei, che conoscono perfettamente l'italiano, sono madrelingua, finalmente, potrebbero scrivere come parlano, o registrare quel che si dice intorno a loro e pubblicarlo, come ha fatto un mio amico di Modena, che ogni tanto scrive anche sul Foglio e che si chiama Ugo Cornia.

    In un libro di una decina di anni fa che si intitola Storie di mia zia (e di altri parenti) Ugo Cornia ha raccontato le storie che si raccontano da decenni nella sua famiglia e intorno alla sua famiglia, come questa di San Cesario sul Panaro, che è un paese in provincia di Modena:

    “Una volta, circa cinquant'anni fa, a San Cesario sul Panaro, era una mattina freddissima di marzo di uno di quei periodi d'inverno spostati in avanti, che il freddo era arrivato tardi, però non voleva più andar via. Infatti dicono che è rimasto sottozero per un'altra quarantina di giorni. C'erano una quindicina di lavoranti che potavano le viti di un vigneto, posto a mezzo chilometro da San Cesario, e tra questi c'era uno, detto Saponetta, che era tre o quattro giorni che non riusciva a andare in bagno. A un certo punto Saponetta ha detto agli altri che doveva assolutamente correre a cagare, se no si cagava addosso, e quegli altri gli hanno detto di andare più in là, dopo la strada. Saponetta è andato, ha fatto, poi è tornato, e era tutto contento di esser riuscito a svuotarsi, poi ha detto che una cosa così non l'aveva mai fatta prima in vita sua né per grandezza e neanche per lunghezza. Allora qualcuno degli altri lavoranti che doveva pisciare andava a vedere e quando tornava gli diceva ‘Dio canta, Saponetta, ma che merda hai fatto' e così, chi prima e chi dopo, tutti quelli che erano lì a potare, prima di andare a casa, sono andati a vedersi la merda di Saponetta. E quando han finito di lavorare e sono tornati a casa l'han detto ai loro famigliari che l'han detto a degli altri e c'è stata un po' di gente che di nascosto è andata a vedere e si è sparsa la voce della merda di Saponetta. E visto che è stato sottozero per altri quaranta giorni, la merda di Saponetta si conservava perché era come se l'avessero messa nel frizer e è partita la processione. Dicono che in quei quaranta giorni, qualcuno di nascosto e qualcuno in compagnia, tutto San Cesario è andato a vedere la merda di Saponetta. Poi finalmente è arrivato più caldo e la merda di Saponetta, come tutte le cose, si è decomposta e è sparita”.

    Ecco, questa storia qua, di Saponetta, è una storia che, a San Cesario sul Panaro, se la raccontano da sessant'anni, ed è una storia, che, se mi chiedessero “Chi l'ha scritta?”, io risponderei “Non l'ha scritta nessuno. Si è scritta da sola. La scritta la lingua, in un certo senso. Come le favole di Afanas'ev”.

    Quando raccoglievo il materiale per scrivere la tesi, negli anni Novanta del secolo scorso, ho vissuto qualche mese a Pietroburgo, e andavo a studiare nella seconda biblioteca più grande delle Russia, la biblioteca pubblica Saltykov-Ščedrin, fondata da Caterina II, che dà sulla prospettiva Nevskij, e, per andare in biblioteca, tutti i giorni, passavo davanti al teatro delle commedie, e vedevo tutti i giorni che spettacolo mettevano in scena, e l'autore italiano più rappresentato, nel periodo in cui io ho abitato a Pietroburgo, è stato Edoardo De Filippo.

    Che le sue commedie le scriveva in una lingua prima parlata e poi scritta, una lingua che somiglia molto al russo della grande letteratura russa, una lingua parlata da secoli, dove si può usare un diminutivo senza sentirsi ridicoli, uno strumento duttile, potentissimo e straordinariamente più complesso dell'italiano che ci hanno insegnato a scuola, mi sembra.

    Un paio di anni fa ho presentato un libro a Firenze, e alla fine della presentazione una ragazza con un nome indimenticabile, Cassandra, mi ha preso da parte mi ha detto che voleva raccontarmi una cosa che le era successa con un bambino al quale dava ripetizioni di italiano. Gli aveva fatto leggere una poesia di Gianni Rodari, e in quella poesia a un certo punto c'era scritto: “Ma però”.

    Il bambino allievo di Cassandra aveva letto e poi le aveva detto “Ma… Ma ‘Ma però' non si può dire. E' un errore”.

    “Eh, – aveva detto Cassandra – è una licenza poetica”.

    “Ah”, aveva detto il bambino.

    Poi ci aveva pensato un po' poi aveva chiesto “E quanto costa, questa licenza?”.

    Io, è probabile che mi sbagli, ma ho l'impressione che l'italiano che parliamo stia diventando sempre più bello.

    E' una lingua che, dalla maggioranza degli italiani, è parlata solo da pochi decenni, e l'italiano che verrà, quello che parleranno i nostri nipoti, sarà una lingua con la quale loro, i nostri nipoti, avranno molta più confidenza di quella che abbiamo avuto noi.

    Intanto noi ne abbiamo più di quella che hanno avuto i nostri genitori, e i nostri figli mi sembra siano la prima generazione che si capiscono tutti fra loro.

    Un italiano di tre anni di Ragusa, e un italiano di tre anni di Macerata, e un'italiana di tre anni di Santa Margherita Ligure, se li mettete in una stanza insieme, e cominciano a parlare, è incredibile, si capiscono tra loro.

    Perché sono madrelingua.

    Con la licenza poetica.

    Che fortuna.