Il romanzo delle intercettazioni

Dimenticate inchieste e cronache. Il genere letterario preferito da giornalisti e pm avrà sempre nuovi personaggi da sputtanare e nuove ombre da proiettare. E chissenefrega se è illegale. Un decalogo

Francesco Cundari

    Nel corso degli ultimi quindici anni la pubblicazione di intercettazioni telefoniche con annotazioni e commento a cura di tutti i maggiori quotidiani del paese ha conosciuto una vera e propria fioritura. Come ogni genere letterario codificato dalla tradizione, anche questo ha sviluppato naturalmente un suo sistema di regole, valide tanto per l'articolo di commento quanto per il semplice resoconto, laddove pure l'apparente linearità e la rivendicata spontaneità dell'operazione potrebbe dare l'impressione di un banale copia-incolla (ma sarebbe comunque più corretto parlare di collage).

    Rigidissime, ad esempio, sono le regole che sovrintendono alla titolazione. Qui il criterio è talmente semplice che si potrebbe rappresentare graficamente su una linea graduata, in base all'intensità emotiva del pezzo, a sua volta direttamente proporzionale al grado di ostilità che si vuole esprimere nei confronti del protagonista. Poniamo il caso, per capirci, che la materia prima, il canovaccio fondamentale, il soggetto del racconto – quella che gli amanti del genere chiamano, ironicamente, “la notizia” – consista nel semplice fatto che in una conversazione intercettata sia stata chiamata in causa una terza persona, del tutto estranea alla vicenda oggetto dell'inchiesta (circostanza peraltro non infrequente). Ebbene, a seconda della posizione di questa terza persona, che chiameremo Rossi, del suo eventuale ruolo pubblico e dei suoi personali rapporti con il giornale che pubblica l'articolo, il titolo seguirà uno dei seguenti modelli:

    – Modello “Shoot ‘em up”, o “spara nel mucchio” (ostilità massima). Esempio: “Caso X, spunta il nome di Rossi”.

    – Modello “Quei bravi ragazzi” (garbatamente minatorio). Esempio: “Caso X, ombre su Rossi”.

    – Modello “Nessuno tocchi Caino” (massimo garantismo, ostilità zero). Esempio: “Caso X, veleni su Rossi”.

    Inutile dire che quando si tratti di alta autorità istituzionale, di giornalista o politico amici, per la titolazione è d'obbligo l'opzione numero 3, modello “Nessuno tocchi Caino”, che si accompagna rigorosamente, nel testo del resoconto, con il semplice riassunto della conversazione intercettata, un riassunto talmente sintetico da rasentare l'ermetismo, e del tutto sprovvisto di virgolettati. Tanto da rendere il suo stesso oggetto molto difficilmente identificabile, e assolutamente impossibile capire, in particolare: a) che cosa è stato effettivamente detto su Rossi; b) per quale ragione la propalazione di tali misteriose allusioni sarebbe equiparabile alla diffusione nell'atmosfera di un pericoloso veleno; c) perché mai, se così stanno le cose, lo stesso articolo proceda ciò nonostante a diffonderlo.

    Al titolo modello “Nessuno tocchi Caino” e al resoconto ermetico si accompagna – per ovvie ragioni di coerenza stilistica e di contenuto – il commento severamente indignato. Occorre però subito fare una precisazione. I commenti alle intercettazioni, infatti, sono sempre indignati. La differenza la fa esclusivamente il modo in cui tale indignazione si esprime: se il commento è cioè severamente, moderatamente o furiosamente indignato.

    L'editoriale che denuncia e depreca i veleni sparsi su Rossi, per tornare al nostro esempio iniziale, lo farà doverosamente in stile solenne (o illustre). Stile che richiede gravità di pensiero e splendore di argomentazione, lessico sceltissimo e periodare ampio non meno che ampolloso. Diametralmente opposto, invece, sarà l'editoriale che accompagnerà titolo e resoconto corrispondenti all'opzione numero 1 (Modello “Spara nel mucchio”). In questo caso il commento sarà scritto necessariamente in stile comico (o “Maramaldo”), che impone lessico popolare, per non dire triviale, e assicura amplissima libertà di insulto e di aggettivazione (immancabili la “rete” delle relazioni e soprattutto le “trame”, rigorosamente “oscure”, ma al tempo stesso chiarissime, attorno al “gioco di potere”, che a sua volta può essere, in ordine crescente di gravità, anch'esso “oscuro”, oppure “spietato”, “sordido”, “nauseabondo”, o ancora, addirittura, “lurido”). Di qui la conseguente predilezione per i bassifondi anche nella scelta delle metafore (“Fogna”, “Cloaca”, “Verminaio”).

    Un caso molto particolare di commento “furiosamente indignato” è il commento di quel giornalista, intellettuale o politico che in altri casi, e con altre vittime, non abbia mancato di stigmatizzare la pubblicazione delle intercettazioni e i relativi commenti. Qui, a togliere l'autore da ogni imbarazzo, soccorre una variante retorica ormai classica del genere (e invero utilizzatissima anche da chi non si sia mai sognato di criticare alcunché), nota agli esperti come “Distinguo sul metodo”. Impossibile negare la logica cartesiana di tale linea argomentativa, che consiste sostanzialmente nel dire che l'eventuale illegalità della pubblicazione, o persino della stessa disposizione dell'intercettazione, sia questione di metodo che andrà affrontata, semmai, in altra sede (il “semmai”, ovviamente, è da intendersi alla lettera, in quanto espressione composta da una premessa ipotetica, “se”, e da una conclusione apodittica, “mai”); mentre quello che sul momento non si può fare a meno di commentare è il contenuto dell'intercettazione.

    Dalla prima volta in cui un giornale italiano offrì ai lettori il testo della primissima intercettazione telefonica illegalmente effettuata, abusivamente diffusa e illecitamente pubblicata, i pochi che a tutto ciò sono stati sempre contrari (leggi: e non solo quando toccava agli amici) ancora attendono il giorno di questa famosa discussione sul metodo, sempre rinviata e mai convocata.

    Da notare che la linea argomentativa del “Distinguo sul metodo” fa regolarmente coppia con l'altra, non meno importante e ancor più diffusa – praticamente un passo obbligato di qualunque commento sulle intercettazioni – secondo cui “indipendentemente dall'eventuale rilevanza penale”, quello che emerge dalle conversazioni è comunque gravissimo sul piano morale-politico-dell'opportunità. E pertanto più che sufficiente ad emettere una severa condanna morale, politica, etica o estetica (se pensate che quella “estetica” sia una forzatura polemica è perché non avete letto o non ricordate gli articoli sul taglio di capelli, l'accento, il modo di vestire e di parlare dei cosiddetti “furbetti del quartierino”).

    Le due argomentazioni – “Distinguo sul metodo” e “Distinguo sul merito” – si possono quindi riassumere complessivamente nel concetto che quanto emerge dalle intercettazioni è sempre gravissimo, indipendentemente dall'eventuale illegalità delle intercettazioni stesse (o della loro pubblicazione) e dalla possibile irrilevanza penale del loro contenuto. In breve: indipendentemente dal fatto che l'unico reato effettivamente compiuto potrebbe essere proprio quello di intercettare e/o pubblicare quelle conversazioni. Ma non è poi così sorprendente, a pensarci bene, che a dirlo siano anzitutto giornalisti e magistrati, vale a dire chi quelle intercettazioni dispone e chi le pubblica. Tanto meno può stupire il fatto che la famosa discussione sul metodo – vale a dire, ripetiamolo, su quello che in molti casi sarebbe anche l'unico reato effettivamente compiuto – venga sistematicamente rinviata a data da destinarsi. Personalmente, posso testimoniare di attendere fiducioso un tale dibattito almeno dai tempi del caso Unipol. Ed era quasi quindici anni fa.

    Il caso merita comunque un posto importante in una storia della letteratura da intercettazione, perché quello è anche il momento in cui il genere compie un salto di scala, dalla passione occasionale e per così dire artigianale di pochi alla produzione industriale di massa. In un certo senso, dunque, si fordizza. Se prima infatti i giornali si limitavano a inserire i virgolettati incriminati all'interno di articoli che restavano comunque un'opera dell'ingegno umano, prodotto del lavoro di un giornalista, insomma normalissimi pezzi di cronaca giudiziaria, dall'estate del 2005 in poi cambia tutto. I giornali cominciano a dedicare pagine intere alla pura e semplice riproduzione dei verbali. Attenzione: non al loro resoconto, sintesi, descrizione o commento, ma alla pura e semplice pubblicazione del brogliaccio così com'è, con tanto di “Pronto?”, “Chi è?”, “Non sento”, “Chi parla?” e via biascicando, storpiando e incespicando per pagine e pagine di chiacchiere senza capo né coda, per lo più incomprensibili, piene di riferimenti a terze, quarte e quinte persone del tutto ignote, sbattute sulle pagine di un giornale, sotto titoloni a base di trame oscure e sordidi complotti, per la purissima sfiga di essere state nominate al momento sbagliato (e magari, per soprammercato, pure insultate, sfottute o derise).

    Da allora giornalisti, pubblici ministeri e persino tecnici delle agenzie cui vengono appaltate le operazioni di registrazione, per arrotondare lo stipendio, hanno preso l'abitudine di riempire libri interi con la pubblicazione o la ripubblicazione di quelle stesse intercettazioni, in modo da garantire a tale succulenta materia anche una seconda, e più lunga, vita editoriale. Così da essere proprio sicuri che in Italia, una volta che si sia finiti, per colpa o per caso, nella grande rete dello sputtanamento a strascico, non se ne possa uscire mai.

    Certo però non si capirebbe la fortuna del genere, e non se ne darebbe un'onesta valutazione, senza tenere conto del suo straordinario valore poetico. Come l'haiku giapponese, lo spezzone d'intercettazione è un lampo nel buio, un frammento di trascendenza incuneato nella quotidianità, un granello di polvere capace di riflettere in sé un intero universo. Alle intercettazioni dobbiamo motti già divenuti proverbiali come “Stamo a fa' i froci cor culo degli altri”, perle di saggezza quali “la patonza deve girare”, dialoghi capaci di illuminare un mondo come “Senti, ti volevo dire: domani mattina, in mattinata, che ne so, undici e mezzo, undici… – Sì, chi ci trombiamo?”.

    Nessuno ricorda più con precisione chi abbia detto cosa, anche perché, con precisione, spesso non lo si sapeva neanche prima: molte delle frasi più celebri non hanno mai trovato alcun riscontro, emerse solo per un attimo e subito di nuovo inghiottite dalla leggenda (vedi alla voce: “Culona inchiavabile”), in un confuso frusciar di registratori e sottovesti, sempre oscillanti sul sottile confine tra vizi privati e servizi deviati.

    Fatto sta che i pochi che alla pubblicazione delle intercettazioni si sono sempre coerentemente opposti, senza mai approfittarne per scagliare la propria pietruzza contro il nemico di turno, passano per pericolosi nemici della trasparenza, e soprattutto della migliore letteratura contemporanea, spesso sideralmente superiore alla stragrande maggioranza di romanzi, racconti, film e telefilm. Se non altro per la qualità dei dialoghi.

    E così la giostra va avanti, all'insegna del motto – terzo, decisivo e immancabile argomento da editoriale – male non fare, paura non avere. Aureo principio, che nelle parole dell'antica saggezza popolare traduce una singolare inversione dell'onere della prova: come dire che se qualcuno ti spia, ti intercetta e ti registra abusivamente, qualcosa di male devi aver fatto anche tu. E così in Italia non c'è agente di polizia o agente segreto, aspirante giornalista o semplice calunniatore che non sappia con certezza, comunque decida di raccogliere e diffondere le sue informazioni, che non un minuto del suo prezioso lavoro andrà sprecato. Per quanto balzane possano essere le sue teorie, per quanto assurde possano risultare le sue accuse, presto o tardi troverà sempre qualcuno pronto a rilanciarle, in nome della libertà di stampa o dell'obbligatorietà dell'azione penale.

    Del resto, se è vero che un classico è un libro che non finisce mai di essere attuale, possiamo stare sicuri che le intercettazioni telefoniche continueranno ancora a lungo ad alimentare non solo una gran quantità di indagini, ma anche e soprattutto una gran quantità di pagine di giornali, riviste, libri. Ci saranno sempre nuovi personaggi da far spuntare, nuove ombre da proiettare, nuovi veleni da diffondere o da denunciare, in nome di una questione morale che riguarda esclusivamente gli altri, solo i nemici e mai gli amici, sempre chi legge e mai chi scrive.

    E' il bello della letteratura.