Il Ppe non vuole mollare la Commissione. La tattica della “carambola”

David Carretta

    Bruxelles. Il Partito popolare europeo sta ricorrendo al “metodo Martens” per mantenere il suo monopolio sulla presidenza della Commissione, centro nevralgico di tutta l'attività comunitaria da cui transitano gli interessi dei governi nazionali nell'Unione europea. Angela Merkel ieri ha detto che “parlerà” con Manfred Weber e il Ppe per convincerli a rinunciare alla candidatura del bavarese, dopo che il Vertice sulle nomine ha constato che non esiste una maggioranza per i tre Spitzenkandidaten presentati da popolari, socialisti e liberali. Ma la famiglia dei conservatori non rinuncia al posto attualmente occupato da Jean-Claude Juncker. E, per conservare la Commissione, usa un vecchio trucco inventato nel 2004 da Wilfried Martens, all'epoca presidente del Ppe. Allora i popolari stavano attraversando una fase di ristrutturazione, dopo aver perso voti e influenza a causa dell'onda rosa di Lionel Jospin e Massimo D'Alema e la terza via di Tony Blair e Gerhard Schröder. Su mandato di Helmut Kohl, preoccupato dalla perdita di influenza e identità dei conservatori, Martens aveva avviato il processo di trasformazione di quella che era una blanda alleanza di formazioni nazionali cristiano-democratiche in un vero partito europeo. Ma la presa del potere doveva passare dalla Commissione, ganglio vitale dell'Ue. Nel 2004, nei giorni finali di Romano Prodi, il grande favorito per succedergli era il liberale belga Guy Verhofstadt, che aveva il sostegno di buona parte del centrosinistra, ma soprattutto di Jacques Chirac. Martens si mise a cercare un'alternativa tra i suoi e, in modo molto discreto, individuò il poco conosciuto premier portoghese, José Manuel Barroso. Prima però bisognava eliminare Verhofstadt. Così Martens impose al Ppe di sostenere in blocco un candidato kamikaze, l'allora commissario britannico Chris Patten, che sapeva sarebbe stato inaccettabile per i francesi. Chirac mise il veto su Patten. Il Ppe (il killer fu Silvio Berlusconi) mise il veto su Verhofstadt. A quel punto, grazie a una “carambola” (come la descrisse lo stesso Martens in un libro) il Ppe riuscì a incoronare Barroso.

    Nella carambola sulle nomine del 2019, Weber ha giocato il ruolo di Patten: eliminato nella sponda per eliminare la liberale danese Margrethe Vestager, che avrebbe avuto un consenso più ampio ed entusiasta. Il Ppe usa anche le debolezze dei suoi avversari. Il Partito socialista europeo non ha mai veramente superato la fase della blanda alleanza tra socialisti, socialdemocratici e riformisti di diversi paesi. Il suo leader politico di fatto attuale, Pedro Sánchez, persegue un'agenda personale. L'Alleanza dei liberali e democratici europei si è trasformata in Renew Europe su impulso di Emmanuel Macron, ma il presidente francese rifiuta di coinvolgersi personalmente. I liberali sono anche divisi da ambizioni individuali, con Verhofstadt che vuole la presidenza dell'Europarlamento e il premier belga Charles Michel quella del Consiglio europeo. Il Ppe userà gli 8 giorni che mancano al prossimo Consiglio europeo sulle nomine del 30 giugno per manovrare a favore del nuovo Barroso. Nessuno fa nomi. Ma le quotazioni di Michel Barnier sono tornate a salire. La presidente croata Kolinda Grabar Kitarović ha il vantaggio di essere donna (anche il premier Andrej Plenkovic scalpita). Il lettone Krisjanis Karins si sta dimostrando abile negoziatore. L'irlandese Leo Varadkar potrebbe spuntare all'improvviso. La bulgara Kristalina Georgieva, per contro, è considerata troppo lontana dagli apparatchik del Ppe. La Commissione per i popolari è fondamentale perché ha l'esclusiva dell'iniziativa legislativa ed è il guardiano dei Trattati. E' lì che si decidono i dettagli della nuova legislazione Ue. E' lì che si lanciano o insabbiano le procedure di infrazione o per deficit eccessivo. E' lì che si fanno le nomine più importanti dell'eurocrazia. E' alla Commissione che il Ppe è diventato davvero potente.

    David Carretta