Il Csm e il gran festival dell'ipocrisia

Salvatore Merlo

    Roma. “Sa cos'è che trovo insopportabile? Trovo insopportabile questo festival dell'ipocrisia”, dice Roberto Castelli, ministro della Giustizia dal 2001 al 2006, e passato alle cronache probabilmente come il ministro più odiato di sempre dai giudici. “Trovo indisponente questo collettivo ‘cadere dalle nubi', come direbbe Checco Zalone. Ma qualcuno la vuole dire la verità? Ciò che emerge adesso dal Csm, il degrado, gli scambi, le spartizioni, il mercato, è un sistema codificato che tutti, intendo tutti, e ripeto ‘tutti', conoscono perfettamente. Si fa così da decenni”. E perché allora le cose non cambiano? Marcello Maddalena, l'ex procuratore della Repubblica di Torino, un galantuomo, ieri sul Foglio ha detto che sulla politica ricade la colpa principale di una debolezza supina e di una rassegnazione codarda nei confronti della magistratura: il sistema elettorale del Csm favorisce il correntismo esasperato, e nessuno in Parlamento, in politica, interviene. Tutt'al più si urla in televisione, e si fanno proposte senza senso, pirotecniche, come l'idea bislacca di sottoporre i magistrati a un test psico-attitudinale. “Per intervenire sulla giustizia devi avere un governo potentissimo”, dice Castelli. “E anche solidissimo. Sia al suo interno, nel rapporto con gli alleati. Sia nel rapporto con l'opinione pubblica. E un governo con queste caratteristiche in Italia non c'è mai stato negli ultimi 25 anni. Forse ce l'avrà Salvini, la prossima volta… Speriamo”.

    Intanto il Csm sempre più sporcato dalle rivelazioni dell'inchiesta di Perugia, resiste. Sergio Mattarella non ha i poteri per scioglierlo, ha probabilmente tentato di spingere i componenti – tutti – alle dimissioni, ma si è dovuto arrendere di fronte a due resistenze: quella dei togati che non vogliono mollare e quella della maggioranza di governo, che è risultata incapace di garantire in tempi rapidissimi una riforma del sistema elettorale. Far votare infatti i magistrati con l'attuale sistema riproporrebbe esattamente lo stesso meccanismo malato di cui adesso tutti discutono. Si sarebbe punto e a capo. “Ci vuole un antidoto e lo stiamo preparando”, racconta allora Andrea Ostellari, il presidente leghista della commissione Giustizia del Senato. “Il tempo per fare una buona riforma del sistema elettorale del Csm c'è”, dice. “Dipende dalla volontà. Magari non in un mese, ma in un tempo congruo sì”, aggiunge. Lasciando forse intuire, a un ascoltatore che fosse particolarmente malizioso, come le resistenze non siano certo nella Lega, ma tra i Cinque stelle. “Il percorso lo ha delineato con estrema correttezza il presidente Mattarella”. Anche il sottosegretario leghista alla Giustizia, Jacopo Morrone, fa un esercizio di prudenza: “Ci stiamo confrontando in queste ore. Non è detto che il sistema elettorale che verrà scelto alla fine preveda il sorteggio”, specifica, facendo riferimento alle ipotesi attribuite al ministro Alfonso Bonafede. E insomma i leghisti di governo sono felpati, e misurati. “La verità?”, ride l'ex ministro Castelli. “La verità è che sulla giustizia non si può fare nulla perché il ministro Bonafede è allineato con le posizioni più estremiste dei più estremisti e conservatori tra i magistrati”. Si riferisce probabilmente alla convergenza, almeno ideale, tra i grillini e la componente dei togati guidata da Piercamillo Davigo, che per effetto delle dimissioni dei tre togati di Mi coinvolti nello scandalo diventa imprevedibilmente la forza di maggioranza dentro al Csm. “A noi non interessa parteggiare per una corrente o per l'altra”, dice Ostellari. “Noi adesso abbiamo il dovere di trovare una soluzione che restituisca legittimità e decoro al Csm”. L'unico modo è che il Consiglio si sciolga. Ma per sciogliersi i consiglieri dovrebbero dimettersi tutti. E non vogliono. Approvare rapidamente un sistema di voto equivale a spingerli alle dimissioni, rendendo questo Csm già delegittimato ancora più anacronistico. La Lega è pronta, pare. Manca l'altro lato della luna. “Non ci conterei troppo”, conclude Castelli.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.