Macerie a Kharkiv, dopo gli attacchi russi (LaPresse)

Un foglio internazionale

La scuola di fotografia a Kharkiv, l'angolo morto dell'impero sovietico

Ha svolto un ruolo di primo piano per l’arte del paese: lo ricorda, con lo sgomento di oggi, Boris Mikhailov, che dal 2007 vive a Berlino. Scrive il Monde (11/9)

Lo sguardo è stanco e sotto i baffi il sorriso è svanito. Da quando Vladimir Putin ha lanciato un’offensiva contro il suo paese, il fotografo ucraino Boris Mikhailov ha il cuore a pezzi. Anche se ha posato le sue valigie a Berlino nel 2007, l’uomo di 84 anni non ha mai spezzato il legame con il suo paese. Pensa all’Ucraina senza sosta. Situata a 40 chilometri dalla frontiera russa, Kharkiv, la sua città natale, è saccheggiata senza sosta da ormai sei mesi. “Le lacrime dell’Ucraina ci accompagnano”, mormora Mikhailov. La sua voce si arrochisce. “Sa, ciò che sta accadendo è molto grave, invade la vita e schiaccia ogni cosa”. Sua moglie, Vita, subentra quando l’emozione prende il sopravvento.

“E’ una sorta di paura che paralizza, che blocca, che sciocca e che provoca rabbia”. Attorno a loro, un grosso gatto color miele va e viene, indifferente ai loro tormenti. La figlia e la nipote lo hanno portato con loro fuggendo dall’Ucraina per raggiungerli. “Lo accarezziamo continuamente per calmarci”, dice Boris Mikhailov, con l’occhio sempre attento alle informazioni provenienti dal fronte. Il suo sguardo si anima solamente quando parla di fotografia. Si entusiasma. “Bisognerebbe raccogliere le foto realizzate dagli anonimi in Ucraina e riunirle per produrre un lavoro artistico”, dice.

Boris Mikhailov avrebbe voluto essere in Ucraina in questo momento, lui che con la sua macchina fotografica ha catturato ogni momento della sua storia recente – il periodo sovietico, le sue illusioni, le sue persistenti vestigia. Ma anche le barricate di Maidan, quando nel 2014, nella piazza centrale di Kyiv, i suoi compatrioti hanno sfidato il presidente prorusso Viktor Ianukovitch in nome della democrazia. La sua ricca carriera è oggi oggetto di una mostra all’Institut national de l’art e di una retrospettiva alla Maison européenne de la photographie (Mep) a Parigi. In ottobre, la Bourse de commerce, museo parigino di François Pinault, celebrerà a sua volta questo osservatore feroce del genere umano, esponendo la sua serie “At Dusk”: un centinaio di foto realizzare negli anni Novanta e ridipinte con un inchiostro blu.

In novembre, infine, ritroverà le pareti di Suzanne Tarasieve, energica gallerista parigina che lo ha fatto scoprire al pubblico francese vent’anni fa. Boris Mikhailov è il più noto fotografo ucraino del mondo dell’arte. Nel suo paese, è molto di più: è la figura di prua di un movimento di primo piano nelle arti della sua nazione, la scuola di fotografia di Kharkiv. Una corrente animata da anticonformisti che, cinquant’anni fa, hanno prodotto un’opera graffiante e sovversiva in opposizione all’arte sovietica. Un’avventura umana che ha riunito una ventina di uomini, per molto tempo oscurati dai loro omologhi russi, relegati nell’angolo morto dell’impero sovietico. La guerra, tuttavia, li ha resi di scottante attualità, in un momento in cui l’Ucraina, attaccata, cerca con forza di valorizzare la sua storia nazionale. “La scuola di Kharkiv non è il passato, è un modo unico di osservare il mondo, di pensare autonomamente con dei valori totalmente democratici”, insiste Sergiy Lebedynskyy, fotografo ucraino da quarant’anni. E’ lui che ha avuto l’idea del Museo della scuola di fotografia di Kharkiv (Moksop).

 

L’istituzione, che occupa il vecchio edificio di una fabbrica chimica di proprietà della sua famiglia, vicino alla stazione del treno, doveva aprire i battenti in settembre. Ma l’inaugurazione, prevista da molto tempo, è stata scombussolata dall’invasione russa. Il museo avrebbe consacrato un movimento poco conosciuto all’estero e reso omaggio a degli artisti ancora vivi. Purtroppo, la guerra li ha sparpagliati in tutta l’Europa, loro e loro opere. Dopo essersi rifugiato per due giorni nella cantina di suo figlio, Evgeniy Pavlov e sua moglie hanno abbandonato l’Ucraina, direzione Graz, in Austria. “Poco dopo la nostra partenza, la casa è stata spazzata via da una bomba”, dichiara il settantenne su Zoom. Il suo collega, Roman Pyatkovka, 67 anni, è invece atterrato a Norimberga, in Germania, dopo un viaggio da incubo in un treno traboccante di gente diretto a Lviv, nell’ovest dell’Ucraina, poi in un bus diretto a Cracovia, in Polonia. Nella precipitazione, ha potuto portare con sé soltanto due macchine fotografiche, alcune pellicole e un disco duro. “Avevo più di 300 chili di archivi a casa mia, era impossibile prendere tutto”, racconta il fotografo. Prima di aggiungere: “Non è una questione di soldi. Queste foto sono tutta la mia vita” (…).

 

Da dodici anni a questa parte, Sergiy Lebedynskyy, 40 anni e grande ammiratore dei suoi colleghi più adulti, covava il progetto di riunire le loro opere in un museo, per insegnare al pubblico ucraino la lettura delle immagini. “L’Unione sovietica ha lasciato una traccia indelebile nelle nostra società e nei nostri cervelli”, dice dispiaciuto. “Non c’è un’educazione alla democrazia, un’educazione allo sguardo. Oggi, si può mostrare tutto, ma le persone non sono pronte a vedere tutto” (…). Sergiy Solonsky, che è atterrato a Parigi a marzo, tenta di non perdere la mano. Ma la sua testa, il suo cuore e la sua ispirazione sono rimasti a Kharkiv. Sono passati sei mesi, un’eternità. Ancora oggi sobbalza quando a Parigi risuona la rituale sirena del primo mercoledì del mese. “Mi ricorda l’Ucraina e il segnale dei bombardamenti”, dice. Per poche ore al giorno, il tempo di una passeggiata per le strade parigine, armato con la sua macchina fotografica Canon, si sforza di tornare a essere ciò che è: un fotografo.

(Traduzione di Mauro Zanon)

Di più su questi argomenti: