un foglio internazionale

Il grande inverno cinese

Culle vuote: Pechino ora teme un collasso demografico. Rana Mitter, storico  a Oxford, spiega gli effetti che avrà sulla nuova guerra fredda con l’America

L’altra settimana il mondo è stato “in preda al rischio di un conflitto tra gli Stati Uniti e la Cina”. Nella storia di copertina dello Spectator, il professore di Oxford Rana Mitter elenca le tensioni tra Pechino e Washington: l’esercito cinese ha lanciato dei missili nello stretto di Taiwan, in molti considerano Taipei l’epicentro di un nuovo conflitto mondiale, altri vedono una riedizione della Guerra fredda: due paesi, due sistemi politici rivali che combattono per la supremazia economica. 

   


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La tesi di Mitter è che l’esito di questo conflitto è legato inesorabilmente alle dimensioni della popolazione cinese. Solo tre anni fa, l’Onu aveva previsto che, entro dieci anni, la Cina avrebbe raggiunto un picco di 1,46 miliardi abitanti. Mitter si domanda: “Ma se questi calcoli fossero sbagliati? Se le provocazioni della Cina mascherassero i timori di un collasso demografico”, quello che in inglese si chiama “baby bust”? 

 
Un recente studio dell’Onu indica un crollo demografico del 94 per cento – siamo passati da otto milioni di nascite dieci anni fa a sole 480 mila l’anno scorso. I leader cinesi temono che questo possa ridurre la popolazione in età lavorativa. Stando ai dati di alcuni anni fa, la popolazione cinese dai 15 ai 64 anni sarebbe cresciuta a 579 milioni nel 2100; questa cifra è stata rivista al ribasso. Ora si parla di 378 milioni di abitanti, un crollo del 35 per cento. Entro il 2030, vengono stimati 23 milioni di cinesi in meno in età lavorativa, il più grande crollo tra le economie del G20. Se questi dati fossero confermati, le implicazioni per il mondo intero sarebbero enormi. A partire dalla situazione a Taiwan. 

 
La crisi demografica significa che un attacco cinese contro Taipei potrebbe soffrire degli stessi problemi che la Russia ha incontrato in Ucraina, ovvero la mancanza di truppe sufficienti per combattere una guerra lunga. Xi Jinping affronta un dilemma leggermente diverso: lo sviluppo tecnologico dell’esercito cinese può compensare una riduzione nel numero di soldati. Molti sinologi si domandano se la crisi demografica condannerà la Cina a restare la seconda economia globale dietro gli Stati Uniti. Come fa il paese a crescere del cinque per cento se la popolazione in età lavorativa continua a diminuire? “Uno scenario più plausibile – spiega Mitter – è che, con una crescita tra il due e il tre per cento, il cinese medio nel 2050 sarà più ricco rispetto a cinquant’anni fa, ma meno benestante e produttivo rispetto all’americano medio”. 

 
Qual è la causa della crisi demografica? La politica del figlio unico è terminata nel 2015 e i leader cinesi hanno risposto con una serie di misure che si sono rivelate inefficaci. Il crollo della nascite si somma ad altre debolezze strutturali: la fragilità del settore finanziario e, soprattutto, immobiliare. Molti cinesi hanno stipulato un mutuo per acquistare delle proprietà ancora in via di costruzione – una prassi diffusa in Cina – e minacciano di non pagare le rate se non hanno la garanzia che queste abitazioni verranno completate. Allo stesso tempo, la middle class ha iniziato a preoccuparsi per il proprio futuro. 

 
Sui social cinesi ha iniziato a circolare una nuova frase: “laurea e poi disoccupazione” (in cinese fa rima: biye jiu shiye). Una delle cause di questo fenomeno sono gli effetti immediati del lockdown: il settore privato non riesce a creare posti di lavoro se non può programmare il futuro; ancora più importante è il fatto che l’isolamento dal resto del mondo ha privato la Cina delle competenze straniere che consentono al paese di restare all’avanguardia. Molti economisti parlano apertamente di uno “scenario giapponese” per la Cina del futuro: dopo la crisi degli anni Novanta, il Giappone è stato meno aperto al resto del mondo, tanto che sempre meno persone decidono di sposarsi e fare figli. Inoltre, circa mezzo milione di giapponesi vivono da eremiti, e molti giovani cinesi vogliono fare lo stesso; alcuni dicono apertamente di non volere lavorare né fare figli. Il combinato disposto tra lockdown, un ambiente lavorativo sempre più competitivo e le pressioni crescenti a sposarsi e fare soldi hanno portato molti cinesi a compiere una scelta considerata impensabile fino a poco fa: emigrare. 

 
Al momento, le donne cinesi vanno in pensione a 50-55 anni e gli uomini a 60. I funzionari statali approfittano di queste regole generose che, tuttavia, non saranno sostenibili a lungo. Aumentare l’età della pensione rischia di scatenare grandi proteste. Un’altra possibile soluzione per abbassare l’età media della popolazione lavorativa è allentare i requisiti di ingresso per gli immigrati dai paesi limitrofi. Tuttavia, questa sarebbe una novità assoluta, e difficile da giustificare, per il regime di Pechino.

 
“Il declino della Cina è inevitabile? – si domanda Mitter nel paragrafo conclusivo – Non necessariamente. Al momento, il paese investe circa il 2,4 per cento del pil nella ricerca e l’innovazione e i risultati si vedono (…). Esistono dei poli dell’alta tecnologia nel sud del paese, nella provincia di Zhejiang e a nord ovest di Pechino. Le innovazioni nelle tecnologie green possono rendere la Cina un player globale nelle energie rinnovabili (…). Anche se è possibile concepire una Cina più piccola, agile e abile, questo non va dato per scontato. La crisi demografica è reale e, come ha scoperto il Partito comunista cinese, mentre è facile convincere le famiglie a non avere più di un figlio, non puoi costringerle ad averne più di uno”.

 

(Traduzione di Gregorio Sorgi) 

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