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Un Foglio internazionale

A San Pietroburgo, caccia agli ultimi oppositori di Putin. Bersaglio: le donne

Nella capitale delle arti e terra natale del capo del Cremlino, regna il terrore. Il viaggio nella Russia proibita raccontato da Le Point

Artiom non è tranquillo. Ha accettato un incontro a condizione di seguire le sue istruzioni: “Al cambio di metro, spegnete i vostri telefoni e uscite alla stazione Parco della libertà. Entrate nel parco, prendete il viale degli Eroi della Grande guerra, girate alla prima a sinistra e aspettate davanti alla terza statua”. Eccolo che arriva, osservando i suoi interlocutori, con una lattina di soda in mano. “Siccome siete sicuramente sorvegliati, ho scelto questo posto perché non ci sono telecamere”. Indica la statua dell’appuntamento, una piccola statua eretta nel 1953 in onore di Raymonde Dien, un militante francese comunista noto per aver manifestato contro la guerra d’Indocina. Artiom fa parte degli oppositori alla guerra in Ucraina. Parla velocemente. Descrive i rastrellamenti, le inchieste approssimative, le detenzioni preventive interminabili. Evoca i suoi anni trascorsi nella sede locale del movimento di Alexei Navalny, l’oppositore numero uno del regime, oggi condannato a nove anni di prigione.

 

Mostra delle recenti fratture al braccio e al volto, in seguito a un’aggressione da parte di tre individui. Spiega che deve cambiare indirizzo ogni sei mesi per ragioni di sicurezza. “Non è facile per le mie figlie, che passano da una scuola all’altra”. Improvvisamente, si interrompe. Un jogger ha appena depositato un pacchetto in un cestino, lì accanto. Si sporge, guarda l’oggetto con aria preoccupata, poi riprende a parlare. Dall’inizio del conflitto, ha aiutato una dozzina di militanti sotto accusa ad abbandonare il paese, “anche se è sempre più difficile trovare i soldi per farlo”. “Il dipartimento della polizia politica conta cinquanta persone, il doppio rispetto a tre anni fa”, dice. “La novità è che la polizia criminale lavora con loro”. Artiom deve andarsene. Indica una nuova uscita del parco “al riparo dalle telecamere” e entra nella metro.

 

Qui a San Pietroburgo, la città natale di Vladimir Putin, regna la paura come nel resto del paese. L’ex città imperiale conosciuta per le sue arti e la sua apertura verso l’Europa vive ormai sotto una cappa di piombo. Certo, la città non conosce le mattanze della guerra. Conta soltanto ventisei soldati morti tra le migliaia di vittime originarie dalle regioni periferiche. I ristoranti traboccano di clienti, le chiatte rumoreggiano sulla Neva e i comici di strada possono ancora posare le loro colombe sulle spalle dei bambini. Ma l’immagine è ingannevole. I turisti stranieri sono spariti, pattuglie di poliziotti sorvegliano tutti gli incroci, i controlli sono incessanti e i militari entrano ed escono dagli edifici pubblici in maniera frettolosa. “I miei studenti sono depressi e disorientati”, sottolinea Grigory Golosov, professore di scienze politiche all’Università europea di San Pietroburgo, “i loro voti sono più bassi”. La maggior parte delle voci dissidenti sono fuggite in Armenia, in Georgia o nei paesi baltici. Quelle che restano sono pedinate. E’ come navigare in un bagno d’acido”, racconta il deputato comunale Boris Vishnevsky, membro di Iabloko, minuscolo partito di opposizione ancora tollerato. “Quando prendo la parola per evocare ‘l’operazione speciale di Putin’, mi spengono il microfono e mi dicono: ‘Sta andando troppo in là con le parole”. Boris Vishnevski accende il suo telefono e scopre la sorte capitata a un manifestante, picchiato dalla polizia mentre mostrava un cartello. “Proverò ad aiutarlo”, racconta. “Mi aspetto da un giorno all’altro che alcuni uomini armati entrino in casa mia, ma preferisco non pensarci”.

 

Ai piani alti del potere, la repressione interna scatenata all’indomani dell’invasione viene rivendicata. Nel cuore dell’arsenale, c’è una legge adottata a marzo che punisce con una pena dai tre ai quindici anni di prigione qualsiasi azione destinata a diffondere delle false informazioni o a discreditare l’esercito. Ci sono stati quindicimila arresti e sono in corso più di cinquanta procedure criminali. Per non parlare delle multe, spesso fissate a diverse migliaia di euro. “Siamo riusciti a far tacere il venti per cento della popolazione che si oppone alla guerra”, afferma trionfante il deputato della Duma Oleg Matveychev, ex consigliere del Cremlino.

 

San Pietroburgo si distingue per la scelta di un bersaglio preciso: le donne. Quattro di loro sono dietro le sbarre e rischiano fino a dieci anni di prigione: Olga Smirnova, 54 anni, accusata di aver postato dei messaggi “di odio” contro la Russia sul social network VKontakte, il Facebook locale; Viktoria Petrova, 27 anni, specialista delle alte tecnologie, colpevole di aver diffuso un video del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky; Maria Ponomarenko, una giornalista, madre di due ragazze, arrestata in seguito a un post sul bombardamento del teatro di Mariupol, in Ucraina, da parte dell’esercito russo. E poi c’è Alexandra Skochilenko, 31 anni, un’artista locale. Il 30 marzo (…) è entrata in un supermercato e ha incollato alcuni slogan sulle etichette dei prezzi. “Putin mente da vent’anni alla televisione”, “Mio nonno non ha partecipato alla Seconda guerra mondiale affinché la Russia diventasse uno stato fascista”, si legge. Una cliente l’ha denunciata. (Traduzione di Mauro Zanon)
 

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