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Femminicidio: una semantica militante per una realtà tragica e complessa

Entrato nel dizionario, il termine è sempre più utilizzata dai politici e dai media, ma una filosofa  spiega perché si rifiuta di impiegarlo

Ogni lunedì, segnalazioni dalla stampa estera con punti di vista che nessun altro vi farà leggere a cura di Giulio Meotti


    

"La situazione è incontestabilmente precipitata negli ultimi tempi” scrive Bérénice Levet sul Figaro. “E’ ormai chiaro che un uomo che uccide la propria moglie, la sua ex moglie, la sua compagna o la sua ex compagna, commette un ‘femminicidio’. E, segno dei tempi, sette anni dopo il dizionario Le Robert, l’edizione 2022 del Larousse intronizza questo vocabolo forgiato nell’arsenale del militantismo femminista. La parola non ha infatti nulla di neutro. E’ impregnata di ideologia e veicola una determinata interpretazione della realtà. Adottarla significa ratificare una certa narrazione, un certo racconto. Sono ben consapevole dell’atmosfera in cui viviamo. Mettere in discussione la parola, significherebbe minimizzare la cosa. Il sofismo è evidente, e grossolano. Che l’uccisione di una donna sia un male assoluto è fuori discussione. Quasi elevata al rango di lingua ufficiale, la lingua delle femministe ha acquisito un’autorità e una legittimità esorbitanti. Parlare bene, pensare bene, significa dire e pensare la condizione delle donne attingendo alle categorie importate in gran parte dal femminismo americano. Non dobbiamo lasciarci intimidire. Non è solo la libertà d’espressione a essere minacciata, ma anzitutto, e forse soprattutto, in maniera ancora più preoccupante, ciò che la sottende e sta alla base della nostra civiltà: la passione di capire, la passione di chiedere, la passione della verità e della realtà.

 
Quando gli illuministi, ma anche Milton e poco dopo Stuart Mill, reclamano la libera circolazione dei pensieri e delle opinioni, non è per ossessione narcisistica, per permettere ad ognuno di esprimersi, bensì per accrescere le nostre possibilità di rafforzarci in termini di intelligibilità, di indirizzarci meglio verso il vero. I nostri pensieri sono prigionieri, prigionieri della retorica vittimistica, prigionieri della ‘causa delle donne’, prigionieri della tirannia dell’emozione. Prigionieri e annoiati. Accordiamoci, come nell’allegoria della caverna, il diritto di spezzare le nostre catene, accordiamoci la libertà di mettere in discussione ciò che è considerato evidente. E’ in gioco la realtà, e solo essa deve guidarci. Siamo i suoi servitori. E poi, non è altro che l’essenza dell’occidente, e della Francia in particolare, siamo quella civiltà che ha come antenati Socrate, Eschilo, Sofocle, Pericle, che è figlia di quel momento di ricchezza in cui ci si interroga su ogni cosa, si proclama che non esistono mappe del pensiero o dell’arte, si rischia e si azzarda in ogni ambito (…). 

 
La parola ‘femminicidio’ fossilizza ognuno dei due sessi in un’essenza, da un lato l’uomo, sempiterno persecutore, dall’altro la donna, eterna vittima, perpetua preda di questo inalterabile predatore. Riducendo qualsiasi storia a un intrigo estremamente sommario, mettendo contro un carnefice e la sua vittima, il bene e il male, la vittima non ha più una sua singolarità, una sua unicità, un suo volto. Non è più una donna con la sua personalità, non è più un essere in carne e ossa, diventa la rappresentante di una specie, una generalità. Da essere unico, decade al rango di semplice rappresentante della specie. Questo termine, che dovrebbe rendere omaggio alle donne ‘morte sotto i colpi’ del loro compagno o ex compagno, produce esattamente l’effetto contrario: la vittima si trova spossessata della propria identità personale (…). 

 
‘Femminicidio’, la parola iscrive l’uccisione delle donne in un grande racconto, quello della società occidentale vista come una vasta impresa di fabbricazione di vittime – le donne, naturalmente, ma anche le ‘minoranze’ e la ‘diversità’. Perché la civiltà occidentale è opera di un uomo bianco eterosessuale cristiano o ebreo che non ha altre passioni al di fuori della dominazione di tutto ciò che non gli appartiene (dunque delle donne, dei neri, dei musulmani, degli animali, dei vegetali, ciò che fonda ‘l’intersezionalità delle lotte’, punto di convergenza tra le femministe, gli indigenisti, i decolonialisti, gli ecologisti e i vegani). Tutti i continenti sono colpiti da violenze e omicidi coniugali, mi verrà obiettato. Forse, ma si osserva che, quando il colpevole non è ‘bianco’, la sorte della vittima interessa molto meno le nostre femministe e le rende per così dire mute (…). 

 
L’effetto tossico, ricercato dalle militanti, è quello di criminalizzare gli uomini in generale e gettare il sospetto sull’eterosessualità: nella logica neofemminista, l’incontro tra un uomo e una donna, poiché l’uomo è ciò che è, è sempre suscettibile di virare alla tragedia. La parola – conclude Bérénice Levet sul Figaro – è dunque un’arma rivolta anzitutto contro gli uomini, contro la nostra civiltà”.

 

(Traduzione di Mauro Zanon)
 

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