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L'uomo a una dimensione

Schermi, immagini, scuola. La pandemia ci ha trasformato in esseri persi in un mondo monocromatico e inodore, dice il filosofo francese Olivier Rey

Questo articolo è stato pubblicato su Un Foglio internazionale, l'inserto con le segnalazioni dalla stampa estera ogni lunedì sul Foglio


  

I cinque sensi alla prova del Covid-19. Da un anno a questa parte, l’ossessione del coronavirus e le restrizioni alla vita sembrano averci trasformato in essere unidimensionali, persi in un mondo monocromatico, inodore, svuotato dal sensibile e allo stesso tempo dalle presenze amate. Secondo il filosofo francese Olivier Rey, professore all’Università Paris-1 Panthéon-Sorbonne e autore, tra gli altri, di “Gloire et misère de l’image après Jésus-Christ” (Éditions Conférence, 2020), “il buon senso ha bisogno di un contatto col mondo”. 


Le Figaro – Nei suoi lavori, lei ha mostrato la proliferazione sfrenata delle immagini nella nostra civiltà. L’anno appena trascorso, che abbiamo spesso vissuto rinchiusi a casa dietro i nostri schermi, non ha forse accentuato questo movimento? In che modo è stato colpito il senso della vista dagli sconvolgimenti che abbiamo provato sulla nostra pelle? 

Olivier Rey – Dietro uno schermo, accade che oltre alla vista venga sollecitato l’udito, ma lei ha ragione, molto spesso è la vista a predominare. Per quanto riguarda il tempo trascorso davanti agli schermi, la situazione attuale non fa che intensificare un processo di fondo. Quattro decenni fa, il filosofo Günther Anders notava quanto segue: “Un tempo, c’erano le immagini nel mondo, oggi c’è ‘il mondo in immagini’, e più precisamente il mondo come immagine, come muro di immagini che cattura senza sosta lo sguardo, lo occupa senza interruzione e ricopre continuamente il mondo”. All’epoca, Anders pensava essenzialmente ai manifesti e alla televisione – gli schermi del computer e dello smartphone hanno soltanto accentuato il fenomeno. Platone, nella sua allegoria della caverna, immaginava degli esseri che, non avendo dalla loro nascita altra esperienza del mondo al di fuori delle ombre cinesi che vedevano proiettate sulla parete di una caverna, non avrebbero potuto fare altro che considerare quelle ombre come la realtà ultima. Ci stiamo incamminando verso una situazione simile, dove gli schermi diventano il luogo per eccellenza del nostro rapporto con il mondo. Ecco spiegati, peraltro, gli incredibili sforzi compiuti attualmente per controllare ciò che vi si vede e ciò che vi si legge. 

La vista è dunque il senso determinante della nostra relazione con il mondo?

Vale la pena riflettere per un attimo su ciò che è la vista. Il nostro verbo “percepire” viene dal latino percipere che significa “prendere, appropriarsi di”. La vita, tuttavia, sembra presentarci il mondo senza che noi dobbiamo compiere alcuno sforzo. Questa impressione è ingannevole. Vedere il mondo come si deve richiede da parte nostra molta “attività”: i nostri occhi devono “adattarsi” affinché l’immagine sia precisa, le distanze si apprezzano attraverso movimenti minimi degli occhi e della testa e, quando ci muoviamo, il nostro cervello deve tener conto dei nostri movimenti per interpretare correttamente le impressioni visive (altrimenti, quando giriamo la testa, avremmo l’impressione che il mondo ruoti attorno a noi). Tutti questi processi inconsci si mettono a punto nei bambini piccoli, attraverso la messa in correlazione delle impressioni visive con i movimenti del corpo e il contatto con gli oggetti. La vista, alla sua maniera, è prensione: semplicemente, abbiamo imparato a trasferire il contatto del corpo e, più specificatamente, della mano, all’occhio, attraverso la mediazione della luce. Grazie a questa esperienza acquisita, la vista può funzionare in maniera autonoma. E’ qualcosa di straordinario. Ma può diventare problematico quando l’esperienza del mondo diventa anzitutto ciò che appare sugli schermi.  

Quali conseguenze può avere su di noi questo modo di “vedere” le nostre vite principalmente attraverso degli schermi e delle immagini?

Alla base, la vista è ciò che ci permette, prima di tutto, di muoverci in maniera adeguata nel mondo. Ora la vista, per estensione continua del dominio degli schermi, ci dispensa dal muoverci nel mondo! Alla lunga, il risultato è un’esperienza del mondo deficiente, “disincarnata”. Come se il nostro corpo non fosse altro che un’appendice ingombrante del nostro cervello e dei nostri occhi (e della punta delle nostre dita, per accarezzare uno schermo o premere i tasti di una tastiera). 

E’ grave?

Alcuni diranno: perché no? Superiamo un nuovo livello verso la spiritualizzazione del nostro essere. Il problema è che, nonostante tutto, non siamo degli angeli, e la spiritualizzazione in questione si compie soltanto attraverso una dipendenza sempre più completa all’infrastruttura materiale delle reti, ai “fornitori di accesso” e ai diffusori di “contenuti”. Due secoli fa, Buffon scriveva: “Solo con il tatto possiamo acquisire delle conoscenze complete e reali. E’ questo senso che rettifica tutti gli altri sensi, i cui effetti sarebbero soltanto delle illusioni e produrrebbero solamente degli errori nella nostra testa se il tatto non ci insegnasse a giudicare”. Meno toccheremo il mondo, più ci accontenteremo di vederlo sullo schermo e saremo maggiormente soggetti alle illusioni e agli errori. Ci si lamenta molto, oggi, delle informazioni false e delle teorie fallaci che si diffondono su internet. Ma la loro moltiplicazione è inerente a un mondo che viene giudicato anzitutto attraverso il modo in cui appare sugli schermi. Il buon senso ha bisogno di un contatto col mondo. 

“Vedere” i propri cari su Zoom o su Skype non permette dunque secondo lei di entrare in relazione e di combattere la solitudine in cui molti si ritrovano dall’inizio della pandemia? Gli schermi non aiutano forse a “tessere un legame sociale”, a sostituire gli incontri “in presenza”?

Effettivamente, è necessario, come lei ha fatto, mettere “in presenza” tra virgolette. Non ho nulla contro l’espressione “a distanza”: è terribile, ma siccome ciò che designa lo è anche, alla fine c’è un accordo tra le parole e la cosa. “In presenza”, invece, è un’espressione perversa, nella misura in cui, attraverso la sua simmetria con “a distanza”, suggerisce che la realtà e il suo surrogato possano essere messi sullo stesso piano… Per quanto riguarda il fatto di “tessere un legame sociale”, mi sembra che gli schermi siano essenzialmente capaci di alimentare, per un certo periodo, dei legami che si è riusciti a stringere senza la loro mediazione. Possono dunque sostituire i legami diretti soltanto in maniera temporanea. Bisogna allo stesso tempo rallegrarsi dei contatti che gli schermi permettono di mantenere e astenersi dal credere che si possa costruire qualcosa di consistente grazie a loro. 

Cosa pensa dell’insegnamento a distanza?

Nella vecchia distribuzione dei ruoli, le famiglie dovevano educare, la scuola istruire. Ma negli anni Trenta, il ministro dell’Istruzione pubblica è diventato il ministero dell’Educazione nazionale e, nel corso del tempo, una porzione sempre più ampia dell’educazione è stata delegata alla scuola. Ma si può educare un bambino a distanza? No, perché l’educazione è un modo di legare il corpo alla parola – legame che implica, affinché si realizzi e si arricchisca, un vero e proprio “corpo a corpo” (il più delle volte assolutamente pacifico!). E’ in virtù di questo legame del corpo con la parola che, in seguito, possono essere trasmesse alcune cose in modo mediato, senza la presenza dei corpi. Ma ciò presuppone che molte cose siano già state acquisite. L’insegnamento a distanza è ancor più problematico quando riguarda i giovani, o gli studenti con un’educazione insufficiente, i quali hanno bisogno della vera classe che, prima di istruire, sopperisce, per quanto può, alla mancanza di educazione. In un’epoca in cui la società si divide in arcipelaghi, la “virtualizzazione” non può che rafforzare questo processo e aggravare in maniera spropositata le diseguaglianze. Anche all’università, dove insegno, e persino a livello di master, i corsi a distanza sono una soluzione di ripiego. Si può sempre trasmettere il sapere, ma ciò che rende questo sapere vivo, desiderabile, è il fatto che anima delle persone che sono a loro volta viventi, che circola tra loro e impegna le persone nella loro interezza. 

Questi cambiamenti profondi che colpiscono il nostro sguardo sono secondo lei irreversibili?

Irreversibili in termini assoluti certamente no. Ma per ora, la dinamica di sostituzione delle immagini alla realtà continua. Nel corso del decennio appena trascorso, le cliniche di chirurgia estetica americane hanno visto moltiplicarsi le richieste di interventi per rimpicciolire il naso. Il fenomeno si spiega con il fatto che davanti agli schermi degli smartphone o alle webcam, situati a breve distanza dal volto, il naso tende ad apparire più grosso di quanto non lo sia nella realtà. Modellare il proprio corpo in funzione dell’immagine di come appare sugli schermi: ecco un ottimo esempio in cui l’immagine primeggia sulla realtà, costituendo la realtà stessa. Tra l’altro, le immagini con cui abbiamo a che fare sono oggi, principalmente, delle immagini animate che, con il loro movimento, hanno un potere di catturare l’attenzione immenso. Provate a giustapporre un capolavoro della pittura e uno schermo che diffonde una trasmissione di Cyril Hanouna (re del trash francese, ndr): a prescindere da quali siano i vostri sforzi per concentrarvi sul quadro, la vostra attenzione tornerà sullo schermo, perché ci sono immagini in movimento. E uno sguardo abituato al movimento perpetuo diventerà incapace di contemplare: l’immobilità diventa fonte immediata di noia.  

La vista non resta tuttavia il senso sella bellezza, la sua porta d’ingresso per accedere a noi?

La nozione di bellezza può essere applicata anche a ciò che coinvolge il nostro udito – che si tratti di musica, di poesia, di discorsi. Tuttavia, per noi (non so se si tratta di un tratto antropologico generale, o di un tratto caratteristico di una civiltà o di un’epoca), l’idea di bellezza fa anzitutto pensare a ciò che si vede, si contempla.  

 

(Traduzione di Mauro Zanon)

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