Un Foglio internazionale

Tintin o l'Uomo Nuovo senza volto

Il filosofo francese Marion su un fumetto che incarna una umanità senza identità

    Questo articolo è stato pubblicato su Un Foglio internazionale, l'inserto curato da Giulio Meotti con le segnalazioni dalla stampa estera in edicola ogni lunedì


     

    Senza identità, senza famiglia, senza volto: perfettamente neutro, Tintin incarna l’uomo per eccellenza. Il filosofo francese Jean-Luc Marion vede nelle avventure del reporter il superamento progressivo della divisione tra gli uomini, le culture e le identità, che sfocia in un’universalità dell’etica.

    Philosophie Magazine - Ai suoi occhi, cos’è che rende “Tintin” un’opera importante del Ventesimo secolo?

    Jean-Luc Marion – Precisiamo anzitutto che non è Tintin a essere entrato nel Ventesimo secolo, bensì il Ventesimo secolo a essere entrato in Tintin! I suoi inizi risalgono al 1930, nel clima agitato del trattato di Versailles, e la sua ultima avventura si conclude pochi anni prima della caduta del Muro di Berlino. L’opera di Hergé ha dunque attraversato questo secolo. E ne ha rappresentato lo specchio, perché Hergé lavorava come una vera e propria spugna – lo ha detto lui stesso – assorbendo l’umore e i costumi del suo tempo, come hanno fatto Proust o Balzac nelle loro epoche rispettive. Hergé, tra l’altro, trae da Balzac la trovata geniale del ritorno dei personaggi secondari, che dà spessore a un mondo che è il suo e diventa il nostro. Questo mondo dove si incrociano continuamente gli stessi personaggi è molto più strutturato di quanto possa sembrare, e le avventure di Tintin costituiscono un sistema chiuso e profondamente ordinato (…). Per capire il Ventesimo secolo, ci sono Proust, Céline, Solgenitsin… e in mezzo c’è Hergé!

     

    Lei lo ha incontrato?

    Avevo appena iniziato a insegnare alla Sorbona, e alla fine di una conferenza a Bruxelles sono riuscito a ottenere un appuntamento a avenue Louise, non esitando a spiegargli la teologia implicita di Tintin. Era una mossa un po’ audace! Ma mi ha ascoltato con gentilezza e alla fine mi ha detto: “E’ molto interessante, mi fa scoprire molte cose su di me!”. Che uno come lui potesse dire una cosa del genere al ragazzino che ero, è la prova della sincerità, dell’apertura dell’uomo. Questa grande sincerità, con una certa dosa di ingenuità, spiega, a mio avviso, il suo conformismo talvolta eccessivo.

     

    Hergé era dunque ingenuo?

    In un certo senso, era un ingenuo totale! Si può vedere in questo un’assenza di personalità, ma io ci vedo soprattutto la qualità che ha fatto di lui un vero e proprio specchio dell’epoca, di tutte le epoche. In “Tintin au Congo”, ripete ciò che si raccontava probabilmente all’epoca del Congo belga ai bambini sui benefici della “nostra bella civiltà occidentale” (come dice Gibbons ne “Le Lotus bleu”). Ma ne “L’Étoile mystérieuse”, riprende pesantemente un discorso anticlericale benpensante che denuncia la superstizione. Ne “Le Temple du Soleil”, mette la scienza – l’astronomia che prevede un’eclisse – contro la superstizione degli Inca, facendo accettare allo stesso tempo l’efficacia dei loro incantesimi a distanza, che sembrano aver la meglio sulla medicina occidentale. Nel dopoguerra, diventa non allineato, poi terzomondista, sempre nettamente ostile al capitalismo internazionale. Infine, vira verso l’ecologia.

     

    Ingenuo, ma non infantile, l’universo di Tintin è un universo di adulti, con guerre, violenze, complotti…

    Ed è proprio questa la genialità di Hergé! Il primo Tintin che ho letto era “Le Crabe aux pinces d’or”, una storia di traffico di oppio. All’epoca, da bambino beneducato, non avevo alcuna idea di cosa fosse. L’ho capito molto anni dopo. Ma ecco la cosa importante: Tintin mi aveva fornito in anticipo i concetti per nominare e pensare ciò che non potevo ancora intuire. Tintin ci ha svelato gli ingranaggi, i processi e le dimensioni della vita sociale (“Tintin en Amérique”) e mediatica (“Les Bijoux de la Castafiore”, “Tintin et les Picaros”), economica (“Tintin au pays de l’or noir”) e politica (“Le Lotus bleu”) prima ancora di averli vissuti. La cosa vale per tutti gli album: non sapevo cosa fosse il traffico di schiavi o l’“Anschluss”, ma da “Coke en stock” e da “Le Sceptre d’Ottokar” ho ricevuto in anticipo le parole per esprimermi su di essi. Anche “Tintin au pays des Soviets”, per molto tempo accusato di anticomunismo primario in periodo di Guerra fredda, si è rivelato assai lungimirante quando quarant’anni dopo abbiamo letto i libri di Solgenitsin. Per me e per molti altri, l’esplorazione lunare si è realizzata meglio in “On a marché sur la Lune” che con il primo passo di Armstrong.

    L’opera di Hergé ha costituito dunque una vera e propria educazione intellettuale e sentimentale, un’iniziazione, insomma una scuola. Certo, ho letto dei libri di storia che in seguito mi hanno permesso di imparare più cose, ma hanno soltanto confermato Tintin e si sono conformati ad esso, non il contrario! Attraverso le sue avventure, ci apre un mondo che di fatto è il nostro, e ci fornisce le parole per comprenderlo.

     

    E’ un mondo dove la tecnica svolge un ruolo di primo piano, ma Hergé non è iper-razionalista?

    No! La differenza tra razionale e irrazionale è messa costantemente in discussione, con streghe, magia, radioestesia e sogni premonitori. Anche l’esoterismo si distingue dall’idolatria tecnicistica. Hergé è un postmoderno, foucaultiano oserei dire, se non addirittura heideggeriano. Per lui la differenza tra sogno e veglia non sembra in fondo mai netta, né solida. Non critica naturalmente la tecnica e le sue scienze, ma le considera come un discorso sul mondo, fra altri discorsi possibili, e altrettanto efficaci (…).

     

    Hergé in compenso è limpido nel suo discorso grafico attraverso il suo marchio di fabbrica: la linea chiara.

    Certo, e non viene mai sottolineato abbastanza (…).

     

    La linea chiara permette anche di ridurre il mondo alla sua più essenziale verità?

    Sì, ma lo stesso Tintin si riduce, in un certo senso, a un qualcosa di puro. Non ha un volto, o meglio, ha un volto levinassiano, un volto invisibile, che si riduce all’etica e invita gli altri personaggi (anche il lettore) ad affrontarlo eticamente e a mettersi così in discussione. Tutti gli altri personaggi mostrano un volto espressivo, Tintin no. Questo reporter senza reportage, né giornale, non ha storia, non ha famiglia, non ha casa. E non ha nemmeno un corpo, non è sessuato (…). Tintin è a malapena un individuo, nel senso moderno del termine: senza bisogni, senza desideri, neutro. Non è nemmeno bianco, né belga, contrariamente a una lettura superficiale e prevenuta. Quando Hergé ha ridisegnato gli album in bianco e nero, ha del resto cancellato tutti i segni di “belgitudine”! (…). Tintin rappresenta l’universalità astratta di un “Io” trascendentale (…).

     

    Al contrario degli altri personaggi di Hergé?

    Proprio così. Prendiamo i Dupondt. Sono la caricatura del comunitarismo: vogliono essere amici di tutti e rispettare tutte le “culture”; dunque si vestono, che si trovino in Cina, in Grecia, in Syldavia, in Arabia o in Svizzera, secondo i presunti codici di abbigliamento della comunità in cui immaginano di integrarsi e dove vengono sbeffeggiati come degli occidentali che sono incorreggibilmente loro stessi. Mi fanno pensare agli studenti con cui ho a che fare nei campus americani: ognuno si veste secondo il codice della propria minoranza per mostrarla meglio, il che rende di fatto impossibile il “free speech space” che sostengono di voler instaurare. Come i Dupondt, esagerano nel rimarcare la differenza per passare inosservati, per essere come tutti gli altri. E’ una caratteristica dell’epoca: poiché tutti sono uguali, ognuno ha il diritto di essere com’è. Bisogna dunque vegliare affinché nessuno sia più uguale degli altri.

     

    Tintin è dunque il rappresentante dell’universale?

    E’ precisamente ciò che fa la forza di Hergé: Tintin è l’uomo per eccellenza (…) Come ho detto in precedenza, incarna un “Io” trascendentale, un “Io” spogliato delle sue particolarità empiriche o, meglio ancora, un Dasein heideggeriano che, come Tintin, non ha corpo. Il mondo che ci apre Tintin è ridotto all’immanenza di un vissuto che non è mai solamente il suo.

     

    Questo mondo si rivela pericoloso, rischioso?

    All’inizio de “Le Sceptre d’Ottokar”, Milou lancia a Tintin un avvertimento molto profondo: “Sai che non riesci mai a occuparti degli affari degli altri”. Avvertimento che gli verrà ripetuto come una minaccia al ristorante: “Chi si occupa degli affari degli altri si espone a dei gravi rischi” (Proverbio syldavo)”. Quando il reporter si immischia di qualcosa, questo qualcosa diventa un pericolo. Tintin è terribile perché è terribilmente umano e l’uomo è terribile. Quando arriva da qualche parte, succede qualcosa. Tutto era calmo, in una situazione pacifica senza di lui. Ma quando appare il reporter, tutto comincia a scivolare verso il dramma (…). Quando Tintin arriva, la quotidianità esplode. Il mondo della quotidianità, dell’“Alltäglichkeit”, si frattura. Questa risonanza con la filosofia del suo tempo è molto curiosa. Dopo tutto, “Tintin” comincia tre anni dopo l’uscita di “Essere e Tempo”. Heidegger e Hergé provengono dalla stessa generazione.

     

    (Traduzione di Mauro Zanon)