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Il lato umano di Macron

Francesco Maselli

François Sureau ha curato lo statuto di En Marche!, ma adesso è una delle voci critiche della sinistra macroniana su immigrazione, stato d’emergenza e statalismo

François Sureau non è un personaggio ordinario. Avvocato, giudice e alto funzionario, soldato nella legione straniera, scrittore, editorialista, primo redattore dello statuto di En Marche!, il partito fondato dal presidente francese Emmanuel Macron, ha molto da raccontare. Quando ci accoglie nel suo studio a Boulevard Raspail, quindi, cerchiamo di capire chi è quest’uomo di sessant’anni affascinato, ci dice fin da subito, dalla cultura anglossone. In effetti l’ampia scrivania in mogano, il vestito a tre pezzi, la pipa e la barba bianca, ben curata, fanno pensare più a un barrister londinese che a un maître parigino: “In realtà il mio sogno è sempre stato scrivere libri di letteratura – risponde, quando gli chiediamo come mai ha avuto una carriera così eterogenea – il resto è frutto del caso: quando a 18 anni si dice ‘voglio fare lo scrittore’ non si pensa di diventare Nabokov, e quindi ho fatto quello che fanno i francesi quando sono bravi a scuola: un concorso. Poi mi sono reso conto di essere assolutamente inadatto alla funzione pubblica, così come al mondo degli affari, e sono diventato avvocato. Per la verità senza grandissima passione, almeno all’inizio”.

 

Sureau è un personaggio mediatico da relativamente poco, dall’inizio degli anni Duemila. Ha scritto venti libri, tra romanzi, raccolte di arringhe davanti al Consiglio costituzionale e saggi. Era conosciuto quindi negli ambienti letterari, ma non dal grande pubblico dei programmi televisivi. Gli chiediamo come mai ha iniziato a esporsi, e quindi ad assumere un ruolo nel dibattito politico, anche se politica non ne ha mai fatta: “Sono nato nel 1957, e fino a qualche anno fa credevo che la nostra società, con tutti i suoi limiti, garantisse ancora l’essenziale. Mi sono reso conto che non è così, e zitto non potevo più stare”. Ma cos’è l’essenziale, chiediamo? “Ciò che definisco ‘essenziale’ varia secondo le epoche, ma è una certa idea dell’uomo, che nel nostro caso è un uomo libero di scegliere, che non è oppresso dallo stato, che può costruire in autonomia un progetto di vita”. Sureau si ferma, riflette, sospira, come se avesse paura di sembrare catastrofista o retrò. Ma poi continua: “Lo noto su questioni di politica immediata: mi sembra che negli ultimi anni a causa di una serie di finte crisi o finte emergenze, la nostra società sia diventata pronta a negoziare conquiste ottenute in secoli di lotte o di elaborazioni in cambio di un po’ di tranquillità. Accade nelle libertà pubbliche, nella reazione al terrorismo, nei fenomeni migratori. E se sommo tutte queste reazioni mi rendo conto che è la nostra rappresentazione del mondo che sta cambiando”.

 

Tra una risposta e l’altra Sureau gioca con la pipa “l’unico mio vizio, ma sto cercando di smettere”, ci chiede dell’Italia, delle elezioni, e alterna punti di vista da avvocato a punti di vista da scrittore, come se cercasse di conciliare le sue due anime: “Mi pare che il mondo contemporaneo abbia delle somiglianze con gli anni Trenta. All’epoca bisognava essere fascisti: il fascismo era moderno, giovane, futurista. Oggi il fascismo è sostituito dalla società dell’informazione continua, che ha come unico obiettivo di preservare i suoi bisogni più immediati. Se cercate di difendere la democrazia tradizionale, la libertà individuale dall’espansione del controllo dello stato siete dei vecchi arnesi, siete trattati com’era trattato chi cercava di difendere la democrazia parlamentare negli anni Trenta”.

 

La questione della difesa delle libertà individuali torna spesso durante la nostra conversazione. Un po’ per il mestiere di Sureau – dopotutto siamo nel suo studio che, come quello di ogni avvocato, trabocca di libri, commentari e codici. Ma è anche vero che il dibattito francese, a causa del terrorismo e dell’ondata di indignazione causata dal movimento #metoo e dalla liberazione della parola delle donne, è spesso ostaggio di un’ossessione securitaria: “Il progressivo attacco ai diritti individuali, senza che nessuno se ne stupisca, è la cosa che mi ha fatto più innervosire. Ecco perché ho moltiplicato gli interventi in televisione, in radio e sui giornali – continua l’avvocato – non tanto sul fatto in sé, mi innervosisco invece per le ragioni che ci portano a quest’idea assolutamente stupida secondo la quale bisognerebbe abbandonare ciò che ci costituisce per difendere meglio noi stessi. E’ paradossale”.

 

Sureau si riferisce, in particolare, allo stato d’emergenza e alla legge antiterrorismo che lo ha sostituito lo scorso novembre. Legge che è stata da poco dichiarata parzialmente incostituzionale nella parte in cui non prevede l’intervento del giudice per autorizzare le perquisizioni amministrative. François Sureau ha una lunga storia di battaglie contro lo stato d’emergenza e i suoi effetti perversi. A novembre ha pubblicato “Pour la liberté. Répondre au terrorisme par la raison”, una raccolta dei suoi discorsi al Consiglio costituzionale. Al di là dei dettagli, ci dice, è il principio che lo inquieta: “Lo stato d’emergenza e le leggi che lo sostituiscono sono interessanti perché ci dicono chi sta vincendo tra noi e i terroristi. Qual è la critica che i fondamentalisti fanno alla società aperta? E’ di essere nichilista, di non credere in nulla. Tutto il nostro sistema si basa sul fatto che la società è libera e allo stesso tempo capace di difendersi senza cessare di esserlo. L’islamista, invece, sostiene che noi mentiamo quando sosteniamo di credere nei diritti umani: è giusto quindi distruggerci, perché al primo attacco siamo disposti a rinunciarvi per combattere i nostri nemici”. Però il punto è, facciamo notare, che 130 morti nel centro di Parigi non sono una normalità. E quindi a tempi eccezionali si risponde con leggi eccezionali. Sureau non è convinto: “Tendiamo a dimenticarlo, ma abbiamo avuto la Wehrmacht sugli Champs Élysées. So che non è elegante dirlo, ma per quanto il Bataclan sia un evento orribile ne abbiamo viste di peggiori. Mentre la domanda di leggi speciali la dice molto sulla crisi del modello occidentale: cos’è una civiltà superiore? E’ una civiltà che non fa dipendere le sue norme della volontà degli altri. L’islamista è una persona che mette una bomba in un posto, la sola differenza con un pazzo è il suo motivo. Ma il motivo, per uno stato di diritto, non rileva: è il fatto che ci interessa, ed è sul fatto che giudichiamo i colpevoli. Siamo noi che facciamo le regole, non gli altri. Altrimenti ammettiamo che il nemico ha la capacità di distruggere il nostro sistema concettualmente. Finché la polizia entra di notte in casa di una persona di origine araba pensiamo che la cosa non ci riguardi, ma chi ci garantisce che i controlli amministrativi si fermino lì?”.

 

Secondo Sureau, l’atteggiamento della Francia, unica democrazia occidentale ad aver dichiarato lo stato d’emergenza per due anni a seguito di un attentato terroristico, racconta molto del rapporto tra i francesi e la libertà: “La Francia è il paese della finzione politica – spiega – i francesi non amano la libertà, ma il controllo amministrativo. La differenza con i paesi anglosassoni è molto profonda: in Inghilterra e negli Stati Uniti i limiti della cosa pubblica sono pensati per preservare la libertà dell’individuo. In Francia il rapporto è ribaltato: non c’è cittadino senza stato. Se per gli anglosassoni il progetto di vita delle persone non riguarda che Dio e loro stessi, per i francesi un progetto di vita privato è impossibile da separare dal progetto politico dello stato”. Un atteggiamento che spiega, probabilmente, il dibattito sulla prescrizione di questi ultimi anni. Nel febbraio 2017 il termine di prescrizione per i reati di diritto comune è passato da dieci a vent’anni, adesso con l’ondata di denunce molto tardive in materia di stupro e violenza sessuale, sta montando un movimento che chiede termini ancora più ampi, fino a trent’anni. Il passo verso l’imprescrittibilità è breve, sempre in virtù delle circostanze eccezionali: “Ma per un francese le circostanze sono sempre eccezionali – nota, amaro, l’avvocato – oggi è il terrorismo, e quindi perché mai opporsi alle perquisizioni notturne, ieri era la criminalità ordinaria, e quindi perché mai consentire a un sospetto di vedere l’avvocato durante la detenzione provvisoria, domani saranno le frodi fiscali, e quindi lo stato potrà entrare nei conti in banca senza chiedere l’autorizzazione a un giudice, dopodomani lo stupro, e allora eliminiamo la prescrizione. La deriva è inquietante: ho la sensazione che i diritti non sembrano più garantiti a prescindere. Non sto dicendo che viviamo in Turchia, per carità, ma che è necessario ricordare che tutto ciò non è scontato”.

 

Le preoccupazioni di Sureau sono più ampie, e investono i cambiamenti della società: “Oggi convivono un nichilismo amorale e una moralità insopportabile. Per reazione il diritto diventa la sola norma accettabile ma, viste le circostanze, è costretto a colorarsi di morale. A questo si aggiunge l’assenza totale della dimensione del perdono e dell’oblio. Siamo una società che non crede in nulla ma condanna duramente in nome della morale, una società che vive nell’istante ma non dimentica”.

 

Negli ultimi mesi Sureau è stato molto polemico nei confronti delle scelte del presidente francese in materia di immigrazione, ha criticato il progetto della loi asile et immigration presentato la settimana scorsa in Consiglio dei ministri, e ha iniziato a moltiplicare gli interventi pubblici. Eppure, poco meno di un anno fa, Sureau si è impegnato attivamente per Macron, ha scritto lo statuto di En Marche! e lo ha pubblicamente sostenuto: “Certo, non lo rinnego – ci risponde – La politica francese era bloccata da anni e siccome amo il mio paese ho pensato che fosse necessario dare una mano. Ma bisogna distinguere tra ciò che succede nel breve termine e quello che succederà nel medio termine. Nel breve termine avere Macron è rassicurante rispetto all’immobilismo di Hollande o all’isteria di Sarkozy. Ma la crisi delle democrazie liberali è così profonda che non sono sicuro che un movimento come quello di Macron avrà la forza di invertire la tendenza. E in ogni caso sull’immigrazione mi ha fatto innervosire”. Una critica che non è passata inosservata: il magazine del Monde gli ha dedicato un lungo ritratto che lo dipinge come “la cattiva coscienza” di Emmanuel Macron, nel quale si raccontano gli attriti su questo argomento tra i due uomini, considerati molto vicini. Sureau, tra le tantissime cose, ha fondato insieme con la moglie Ayyam, ex funzionaria all’Unesco, l’associazione Pierre Claver, che si occupa dell’accompagnamento e dell’integrazione dei rifugiati. Insomma, da questo punto di vista, sia per la sua professione che per il suo ruolo di volontario, Sureau sa di cosa parla: “Lo dico senza problemi, credevo che Macron avesse scelto un’altra via con il problema dei rifugiati. Il dibattito pubblico è ostaggio di due visioni contrapposte ed egualmente stupide: da un lato c’è chi spiega che bisogna chiudersi e difendersi, dall’altro chi sostiene che è necessario aprire in maniera indiscriminata. Macron, con la retorica di fermezza e, au même temps, allo stesso tempo, umanità, sembrava aver trovato una terza via. E invece è la stessa politica di Sarkozy e Hollande, non c’è discontinuità. E’ una politica mediocre, dispiace dirlo”.

 

Chiediamo qual è la terza via che Macron avrebbe potuto intraprendere e ha deciso di evitare di farlo: “Forse è il momento di discutere su cos’è il diritto d’asilo. L’occidente, che ha impiegato secoli a costruire e difendere le sue libertà e le sue leggi, è diventato la valvola di sfogo di tutti i regimi abietti del mondo, che si sbarazzano della loro povera gente costringendola a emigrare mentre loro aprono conti in Svizzera anziché occuparsi del loro popolo”. Il punto è sempre quello quindi, cercare di migliorare le cose nei paesi di origine? Sureau dà un’interpretazione leggermente diversa: “Non stiamo parlando dei paesi dove c’è la guerra, il discorso in questo caso non si pone nemmeno. Parliamo del resto: se accettiamo che i due terzi dei regimi del pianeta siano retti da dittatori, siano dei paesi dove gli uomini e le donne non hanno la possibilità di sposarsi con chi vogliono, lavorare come credono e votare per chi li dirige, non possiamo stupirci che i loro cittadini cerchino di venire da noi. E questo cosa genera? Un pregiudizio per le persone più in difficoltà in occidente che vengono da decenni di lotte sociali”.

 

Ma un ragionamento del genere può essere pericolosamente simile a quello dell’estrema destra, dell’“aiutiamoli a casa loro”: “No, perché per me l’asilo è sacro per tutti – precisa subito – il punto non sono le persone che arrivano, ma i loro governi. Forse è il momento di cambiare punto di vista, e un esempio può essere utile. Ogni anno arrivano in Francia migliaia di persone dalla Guinea, dove non c’è una guerra come in Siria o Afghanistan. La posizione politica in questo caso è molto semplice: si fa pressione sul presidente della Guinea, gli si chiede di chiudere l’ambasciata, si interrompono i rapporti diplomatici e si smette di considerarlo come il presidente di uno stato. Se dei suoi cittadini ce ne occupiamo noi, allora tanto vale farlo fino in fondo e mettere fine a questa finzione: questi capi di stato non sono dei veri dirigenti politici”.

 

Secondo Sureau c’è un altro argomento che spesso viene sottovalutato nel dibattito sull’immigrazione: “I francesi, come tutti gli occidentali, sono intrinsecamente razzisti e paternalisti, vedono i rifugiati non come delle persone che vengono qui a cercare di avere un progetto di vita diverso e nuovo ma come dei ‘bougnoules’ (Sureau utilizza un termine dispregiativo che in francese indica i magrebini) che cercano le allocazioni sociali. Per la destra sono dei bougnoules cattivi, per la sinistra non fanno nulla di male ed è giusto che cerchino assistenza. In entrambi i casi però, il rifugiato viene trattato come un bougnoule. L’idea che le persone fuggano da paesi inabitabili per vivere una vita più degna è in secondo piano e infatti il dibattito si fa sull’accoglienza, non su tutto il resto. Perché? Perché l’accoglienza mette in gioco la buona opinione che abbiamo di noi stessi, ed è quindi più semplice mobilitarsi. Ma se non cambiamo approccio rimarremo in questo limbo che danneggia noi stessi e chi attraversa il Mediterraneo”.

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