L'Asia illiberale

Eugenio Cau e Giulia Pompili

Mentre Xi Jinping rimuove i vincoli al suo potere, la Cina diventa fonte d’ispirazione per vari leader asiatici in cerca di affermazione. Bye bye America

Alla corte dell’imperatore Xi

Se senti la campana cinese, è tutta una questione di stabilità. Il Global Times, tabloid che spesso veicola il punto di vista più conservatore dell’establishment di Pechino, ha scritto che “soprattutto nel periodo tra il 2020 e il 2035, momento cruciale per la realizzazione della modernizzazione socialista della Cina, il paese e il Partito comunista hanno bisogno di una leadership stabile, forte e coerente”. Insomma, se Xi vuole far cambiare la Costituzione per eliminare il limite dei due mandati presidenziali e diventare imperatore di fatto (la proposta sarà votata durante il grande evento legislativo di marzo, dunque tra pochi giorni), è perché la Cina ha bisogno di un timoniere dalla mano salda, e questo non può che essere un bene per il resto del mondo. Senti l’altra campana, quella dell’occidente, ed è tutto il contrario. La mossa di Xi segna il passaggio definitivo da un regime di leadership collegiale che garantiva un certo pluralismo nel processo decisionale a una dittatura molto più tradizionale. Il sistema in base al quale il presidente e segretario del Partito era un primus inter pares a capo di un’oligarchia di ingegneri ormai è sepolto: sia perché non ci sono più i pares, sia perché nella leadership uscita dall’ultimo Congresso gli ingegneri sono stati sostituiti da scienziati politici e filosofi. Per gli osservatori occidentali, la fine di questo sistema significa potenziale instabilità. Jude Blanchette, studioso esperto del periodo maoista, ha agitato lo spettro dell’Unione Sovietica dicendo al Washington Post che “la Cina, come l’Unione Sovietica prima di lei, non è riuscita a istituzionalizzare il processo di successione” della classe dirigente. Chi ha ragione, il partito di Xi-imperatore come portatore di stabilità o quello che dice il contrario? E’ importante saperlo perché l’Asia e il mondo intero dipendono dalla stabilità cinese tanto quanto da quella americana. Che sia l’una o che sia l’altra opzione, l’unica certezza è che la “fantasia cinese” nutrita dall’occidente per cui il sistema politico della seconda economia del mondo si sarebbe aperto e democratizzato con il tempo ormai è da considerarsi morta. La Cina è e rimarrà un bastione dell’autoritarismo, e la forza del suo modello antidemocratico già si irradia in tutta l’Asia.

Getting things done

Se volete sapere come funzionerà l’economia cinese nell’èra dell’imperatore Xi dovete tenere d’occhio Liu He. I due, Xi e Liu, si conoscono da quando sono ragazzi, e da decenni Liu è la mente economica all’interno del team del presidente. E’ una delle prime conseguenze del nuovo corso autoritario della Cina: Xi accentra il potere e lo condivide non più per via meritocratica con la burocrazia comunista, ma con gli alleati di cui si può fidare. Per fortuna Liu He è preparatissimo. Se tutto va come previsto, durante la grande assemblea legislativa dei prossimi giorni Liu sarà nominato vicepremier, e insieme alla carica otterrà il controllo quasi completo della direzione economica del paese. Già da anni Liu è al fianco di Xi in tutte le occasioni più importanti, da Davos in giù, ma questa settimana il presidente l’ha mandato da solo in missione negli Stati Uniti, a spiegare a Washington cosa sta succedendo nella capitale cinese e a calmare i bollori protezionisti di Trump. Per molti anni Liu, anche a causa del suo eclettismo estetico (ha i capelli grigi, mentre tutti i suoi colleghi a Zhongnanhai se li tingono di nero), è stato considerato un tiepido riformatore pro mercato. Fin dal suo primo mandato, tuttavia, Xi ha fatto capire che le grandi aziende pubbliche e il settore statale rimangono fondamentali, e che l’accentramento del potere economico è una priorità per ridurre i rischi (vedi il caso recente di Anbang). Per evitare la “middle income trap”, tuttavia, la Cina ha bisogno di riforme sostanziali. Nel 2012, Xi si è presentato al mondo come riformatore, ma finora la sua leadership è stata carente sul tema. Ecco che si ripropone la stessa dicotomia: la nuova spinta autoritaria potrebbe aiutare la Cina a “getting things done”, a ottenere risultati, dicono alcuni. Molti osservatori, specie occidentali, sostengono invece che la trasformazione in dittatura, se tale sarà, potrebbe far perdere al paese il suo noto dinamismo economico. Negli ultimi secoli, notano, nessuno stato dittatoriale è mai stato un’economia davvero prospera.

Il “dream team cinese”

Il South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong, lo ha definito “il dream team della politica estera di Xi Jinping”. Durante il grande evento politico di marzo, il presidente-imperatore provvederà a rimescolare tutta la dirigenza diplomatica cinese, e a riposizionare i suoi fedelissimi. Primo fra tutti sarà Wang Qishan (nella foto con Obama), alleato pluridecennale di Xi che negli ultimi cinque anni è stato il suo potentissimo zar anticorruzione e che nei prossimi giorni dovrebbe essere nominato vicepresidente e ottenere un portfolio d’incarichi larghissimo, che ha come elemento centrale la gestione completa del rapporto bilaterale con gli Stati Uniti – in pratica, Wang è l’uomo scelto da Xi per gestire Trump e tenere buona l’America mentre la Cina si prende il posto che le spetta nel mondo. Che il “dream team” di politica estera abbia tra i suoi obiettivi l’esportazione del modello cinese nel mondo, lo si può notare anche dal fatto che ne farà parte anche Wang Huning, ideologo della teoria del “neo autoritarismo” e, più di recente, inventore del termine “sogno cinese”, che Xi ha usato per designare il ritorno della Cina al rango di superpotenza globale. Il Partito comunista cinese non ha mai davvero abbandonato la visione del mondo che fu degli imperatori, quella di un egemone assoluto in Asia che sovrintende su una schiera obbediente di province autonome e stati satelliti. Ora che l’imperatore potrebbe essere tornato, il futuro dell’Asia è sempre più autoritario.

La deriva autoritaria cambogiana

Primo ministro della Cambogia sin dal 1985, ex comandante degli Khmer Rouge, negli ultimi anni la deriva illiberale del governo di Hun Sen è stata oggetto di numerose critiche. Il paese del sud-est asiatico, con un pil in crescita del 6,9 per cento previsto nel 2018, è sempre più vicino alla Cina e lo dimostra lo stretto rapporto diplomatico tra Hun Sen e il presidente cinese Xi Jinping, dovuto anche ai grossi investimenti che Pechino concede a Phnom Penh. Lo scorso anno il primo ministro cambogiano ha presentato, direttamente dall’ufficio di presidenza, un libro sullo “stile di governo di Xi Jinping”, incoraggiando i cittadini a leggerlo “come esempio di buon governo”. Alle elezioni per la Camera alta del Parlamento che si sono tenute l’altro ieri, il Partito popolare cambogiano – quello al governo guidato da Hun Sen – ha ottenuto 58 seggi su 62 – su 11.670 votanti, 11.202 voti – e si è trattato di una specie di prova generale delle elezioni dell’Assemblea nazionale che si terranno il 29 luglio prossimo e su cui bisognerà porre molta attenzione. Qualche mese fa, su richiesta dello stesso governo cambogiano, il principale partito d’opposizione, il Cambodia National Rescue Party, è stato sciolto e la sua dissoluzione ratificata da una sentenza della Corte suprema. Subito prima, il leader del partito Kem Sokha era stato arrestato per via di due accuse di diffamazione presentate dal presidente dell’Assemblea nazionale cambogiana e dallo stesso Hun Sen. Ieri il tribunale di Phnom Penh, riconoscendo l’oppositore politico colpevole, gli ha confiscato le proprietà tra cui il terreno dove sorgeva il quartier generale del partito da lui fondato. Come spesso succede in questi casi, Kem Sokha è accusato da Hun Sen di far parte di un complotto internazionale guidato dagli Stati Uniti per sovvertire l’ordine democratico cambogiano. Nel tritacarne degli oppositori è finito pure il cittadino australiano James Ricketson, regista, accusato di spionaggio, in carcere sin dal giugno scorso e in attesa di processo per aver fatto volare un drone sulla sede del Partito popolare. Simile la vicenda di Sam Sokha, una attivista cambogiana che lo scorso anno aveva tirato una scarpa addosso a un cartellone con la faccia di Hun Sen, e il video dell’azione era circolato su Facebook. La polizia la cercava, lei si era scappata in Thailandia, dove le Nazioni Unite le avevano riconosciuto lo status di rifugiata, ma poi è stata comunque rimpatriata in Cambogia. E’ per questo che molti dei militanti temono per la loro incolumità, hanno lasciato il paese e vivono quasi in clandestinità. Come Mu Sochua, scappata subito dopo l’arresto di Kem Sokha e che ora fa campagna elettorale in esilio. Lo scorso anno, ad agosto, Hun Sen si è concentrato sui media: prima ha ordinato la chiusura di due emittenti filo americane, Radio Free Asia e Voice of America. Poi ha fatto in modo che il Cambodia Daily, uno dei più antichi quotidiani in lingua inglese cambogiani, fosse colpito da salatissime multe per evasione fiscale e costretto a chiudere. Sempre ad agosto Hun Sen aveva insultato la Cnn e una ong che opera in Cambogia contro lo sfruttamento sessuale, per aver “insultato” il paese, e ha minacciato di espellere i dipendenti americani del National Democratic Institute, ong legata al Partito democratico americano. Mentre Washington si è già più volte detta “preoccupata” della deriva cambogiana, la Cina ha sottolineato che lo sforzo di Hun Sen è finalizzato a “preservare la stabilità del paese”. All’inizio del mese è finito sotto inchiesta in America perfino il profilo di Facebook, grazie a un altro nome eccellente dell’opposizione cambogiana, costretto all’esilio in America, Sam Rainsy. I suoi legali hanno portato la società di Mark Zuckerberg in tribunale perché la popolarità del profilo ufficiale di Hun Sen sarebbe falsata dall’acquisto di “like” pagati con i soldi dei contribuenti.

L’arte di sapersi scegliere i nemici

Rodrigo Duterte è uno dei personaggi più controversi arrivati sulla scena internazionale da poco meno di due anni. Più volte sindaco della sua città natale, Davao, sull’isola di Mindanao ancora minacciata dall’estremismo islamico, Duterte è stato eletto presidente della Repubblica delle Filippine nel 2016 e gode di un considerevole supporto popolare. Già dai primi mesi di governo ha praticamente trasformato le sue politiche locali in una versione più estesa, a livello nazionale. Anzitutto per quello che lui chiama la sua personale guerra alla droga, e l’istituzione di battaglioni che da mesi eliminano fisicamente non solo spacciatori, trafficanti, ma anche consumatori di droga. Lo scorso anno la senatrice Leila de Lima ha presentato un rapporto delle Nazioni Unite in cui si dimostravano le violazioni di diritti umani perpetrate dagli squadroni della morte di Duterte, ed è stata arrestata pochi giorni dopo, ufficialmente accusata di traffico di stupefacenti all’interno di un istituto penitenziario quando ancora era ministro della Giustizia. Sabato scorso Harry Roque, portavoce del presidente filippino, ha fatto “gli auguri” di “buon anniversario” alla De Lima, in carcere da un anno, “regina di tutti gli spacciatori”. Oltre al problema dei diritti umani, l’opposizione interna a Duterte ha più volte sottolineato la sua deferenza nei confronti della Cina. Non è un caso se proprio nel 2016, poco prima che Duterte venisse eletto presidente, le Filippine avevano vinto la storica causa contro la Cina per quanto riguarda la rivendicazione di Pechino delle acque del Mar cinese meridionale. L’arbitrato internazionale aveva dato ragione a Manila, giudicando illegale le rivendicazioni cinesi. Eppure, una volta eletto, Duterte ha deciso di non usare la sentenza, e di “collaborare direttamente” con Pechino per una soluzione pacifica della disputa. La scorsa settimana, parlando a una assemblea di businessman filippini e cinesi, e davanti all’ambasciatore cinese nelle Filippine, Duterte aveva detto: “La Cina sta costruendo delle basi militari qui (intendendo le controverse isole artificiali che Pechino costruisce nel Mar cinese meridionale). Bisogna ammetterlo. Ma ci riguardano? Spero scherziate. Non è una cosa che ci riguarda. Il potere ideologico nel mondo, la geopolitica, è cambiato tutto. Tutto quello che fa la Cina è rivolto contro chi pensa che potrebbe distruggerli. Quindi l’America”. E poi: “Io non metterò mai a repentaglio le vite dei filippini inutilmente. Non vado a una guerra che so che non potrò mai vincere. Non lo faremo, è irrealistico. Anzi, se volete, potete fare di noi una provincia, tipo il Fujian. La provincia delle Filippine, Repubblica cinese”, ha detto scherzando. Ma lo scherzo non è piaciuto per niente all’opposizione. Secondo Tom Villarin, del Partito Akbayan di Davao, “sta diventando un’abitudine del presidente quella di assoggettarsi sempre ai desideri della Cina, e questa battuta rappresenta la sua ostinata sottomissione a spese della nostra sovranità. Con lui come presidente, saremo venduti alla Cina per una miseria, quello scherzo è su di noi”. Nonostante le voci circolate nei giorni scorsi, il portavoce Roque ha fatto sapere ufficialmente ieri che Duterte non ha nessuna intenzione di estendere il suo mandato presidenziale: “E’ fuori discussione”.

Un amico coi soldi

“Mentre la violenta politica del governo del Myanmar nei confronti del gruppo musulmano rohingya ha attirato una crescente condanna internazionale nel 2016, l’icona della democrazia, Aung San Suu Kyi, ha evitato di parlare apertamente della minoranza perseguitata. E nel suo tentativo di proteggere il Myanmar da un rinnovato isolamento, ha continuato ad approfondire la sua relazione con il suo più potente e autoritario vicino: la Cina. Sembra proprio che il luogo comune secondo il quale gli stati che hanno ottenuto la democrazia da poco avrebbero meno interesse per i partner autocratici sia falsa”. In un articolo di qualche settimana fa Tom Harper dell’Università del Surrey su Quartz ha ritratto perfettamente il rinnovato interesse di Yangon per Pechino. Sono anni che la crisi umanitaria della minoranza musulmana rohingya va avanti, e ha radici profonde, geografiche, etniche, politiche. Ma sin dal 2015, quando Aung San Suu Kyi – premio Nobel per la Pace nel 1991 – da prigioniera politica è riuscita a diventare la leader de facto del paese, vincendo le prime elezioni democratiche del Myanmar dagli anni Sessanta, la tragedia dei rohingya è diventata la nuova arma usata politicamente contro la Signora. Trasformata dall’occidente in poco tempo da “eroina dei diritti umani a icona alienata” (scriveva la Bbc), Aung San Suu Kyi è accusata di tacere sulle atrocità perpetrate dal suo esercito nello stato del Rakhine, al confine con il Bangladesh. In realtà, come spesso accade, la questione è più complicata di così, anzitutto per via della leadership del Myanmar, ancora saldamente nelle mani di Min Aung Hlaing, comandante in capo di Tatmadaw, le Forze armate del paese. E non è un caso se l’unico leader straniero da cui Min Aung Hlaing abbia accettato consigli per risolvere la questione dei rohingya sia Xi Jinping, la cui preoccupazione è soprattutto legata alla ormai accertata campagna di reclutamento da parte dello Stato islamico all’interno della minoranza perseguitata del Rakhine. Il presidente cinese ha detto che Pechino avrà un ruolo “costruttivo” nel processo di pace del Myanmar, sia per quanto riguarda la stabilità del paese sia nella protezione dei suoi confini, e lo ha detto mentre prometteva ingenti finanziamenti e opere pubbliche in Myanmar, un passaggio strategico della Nuova Via della Seta. Mentre l’Unione europea sta ufficialmente preparando nuove sanzioni economiche individuali contro “generali e ufficiali delle Forze armate” responsabili, secondo l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri Federica Mogherini, di “serie e sistematiche violazioni dei diritti umani” nello stato del Rakhine, il Myanmar, stretto nella morsa di influenza geopolitica cinese, ottiene quello di cui ha bisogno: un amico ricco e potente, che non interferisce con i suoi affari interni. E’ la teoria politica del “guanxi”, secondo l’ultimo report del think tank Institute of Strategy and Policy, con sede proprio in Myanmar: “Il guanxi è un concetto profondamente radicato nella società cinese, che enfatizza le dinamiche culturali basate sulle sfere di influenza personalizzate, e che non serve soltanto a promuovere l’immagine cinese – come invece fa il soft power tradizionale”. “Vuol dire fare favori a coloro che possono essere utili per i tuoi interessi a lungo termine”, scrivono gli autori del report. Prima del 2010, quando il Myanmar ha iniziato il suo processo di riforma, il rapporto tra i due paesi era di completa dipendenza e subalternità, ma Pechino ha imparato la lezione e sa come evitare di suscitare sentimenti anticinesi tra la popolazione

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