L'educazione sparita

Più che il politicamente corretto, quello che sta distruggendo le università americane è il lazy river

Se i dogmi del politicamente corretto, fatti rispettare con puritano rigore, e il manuale di condotta di “Animal House”, compulsato con libertino fervore dalle confraternite con le lettere greche, non sono riusciti a distruggere l’università americana, ora ci prova il cosiddetto lazy river, il placido canale artificiale che porta sui ciambelloni i visitatori dei parchi acquatici con il drink in una mano e lo smartphone nell’altra. Per qualche insondabile ragione, il lazy river è diventato un feticcio di rettori e consiglieri d’amministrazione delle università di mezza America, che fanno a gara a chi ha il pigro fiumiciattolo più lungo, immerso nel parco più verdeggiante, dove gli studenti si possano riprendere dalla sessione di esami, da una sbornia, dalla noia. Le università pubbliche dell’Alabama, dell’Iowa e del Missouri si sono attrezzate senza badare a spese, ma il record spetta per il momento alla Louisiana State University, che ha un river di 163 metri e rotti che traccia le lettere Lsu. I ragazzi ci si impigriscono a meraviglia. L’opera, realizzata contestualmente a un monumentale ampliamento della palestra, è costata 85 milioni di dollari, che non sono stati forniti da un filantropo locale che vuole vedere scintillare la sua alma mater di seconda fascia, ma sono stati messi nella retta studentesca.

  

Gli amministratori dell’università, ammaliati da troppe lezioni di marketing, sono convinti che si tratti di un ottimo investimento: il parco acquatico fa status, valorizza il clima caldo della Louisiana, attira gli studenti che scelgono l’università in base agli svaghi che offre e giustifica il costante aumento delle rette, che nel giro di quarant’anni sono passate da una media di 9 mila dollari l’anno a 35 mila. A forza di trasformare i campus in golf club di Trump, con l’idea di consolidare la brand awareness, il costo delle università pubbliche per gli studenti è cresciuto del 60 per cento soltanto negli ultimi dieci anni. Per chi si iscrive oggi, la Lsu costa tre volte di più che nel 2000. La corsa per il lazy river è una storiella non proprio edificante che spiega perché alla domanda “a cosa serve il college?” sempre più americani rispondono “assolutamente a niente”, come scrive un’inchiesta di Newsweek firmata da Alexander Nazaryan. La guerra al college è una specialità dei conservatori da prima che Richard Nixon sbraitasse contro gli “Harvard bastards”, che plasmavano la classe dirigente americana sulle parole d’ordine dell’élite di sinistra. Per la destra, che porta ancora qualche germe dell’anti intellettualismo puritano, le università di grande blasone sono la scena dove si svolge la chiusura della mente americana, uno storico libro di Allan Bloom che va letto in accoppiata con i suoi sequel odierni, i saggi sulla coccola della mente americana scritti da Greg Lukianoff e Jonathan Haidt che in estate verranno finalmente raccolti in un volume. Una volta chiusa, la mente ipersensibile di studenti che proprio non ce la fanno a sopportare la parola “negro” stampata su un volume di Huckleberry Finn e pretendono di avere dei “safe space” dove rifugiarsi in caso di offesa, viene accarezzata, rinfrancata, il loro delicato self viene pettinato nel verso giusto. Secondo un sondaggio condotto lo scorso anno dal Pew Research Center, il 58 per cento dei repubblicani pensa che l’università abbia degli effetti negativi sulla vita del paese.

  

Non è difficile scovare la persuasione ideologica prevalente in un ambiente dove l’Associazione americana dei professori universitari ha creato uno spin-off chiamato “One Faculty, One Resistance” per combattere l’Amministrazione Trump, ma a conti fatti i ragazzi che si laureano nelle otto università della Ivy League sono lo 0,4 per cento di tutti gli studenti, e la riproposizione pedissequa del grottesco vangelo del politicamente corretto è appannaggio di una certa porzione delle università. E tutti gli altri istituti, che fanno? Come si barcamenano? Con il lazy river.

  

Accanto agli estremi elitari e ideologici che reggono soprattutto i piani alti dell’educazione superiore, si è sviluppato un modello di business universitario basato sull’aumento delle palestre pro capite, sulla moltiplicazione dei servizi ricreativi, sullo svago, sullo stadio più grande, sul marketing a sfondo climatico, sul ranking delle migliori feste, delle migliori confraternite, sulle borse di studio d’oro per atleti che non vedono una lezione nemmeno per sbaglio. Quale rettore potrebbe permettersi di perdere un quarterback dotato che non ha alcuna intenzione di aprire un libro? Il lazy river è un esempio colorito, ma l’immenso giro d’affari degli sport universitari e le capacità di reclutamento che offrono hanno portato le università prive di blasone e credenziali accademiche a fare investimenti di proporzioni surreali per attività senza alcuna rilevanza educativa. L’allenatore della squadra di football della University of Alabama guadagna 11 milioni di dollari l’anno, cento volte di più del più pagato fra i suoi colleghi che stanno dietro la cattedra. Negli Stati Uniti ci sono 4.724 istituti che danno un titolo di studio superiore, e la stragrande maggioranza non ha alcuni incentivo a migliorare il livello dei professori e attirare studenti più capaci. Ciò che serve è un corpo studentesco pagante avvinto dalle bellezze del luogo e deciso a conseguire un titolo con il minor sforzo possibile, meglio se accompagnato da un costante flusso di figli dell’élite cinese e indiana. Per soddisfare il target è più efficace costruire una nuova piscina che assumere un nuovo professore di Filosofia morale. Le università statali sono particolarmente incoraggiate a disinteressarsi dell’offerta educativa. I sistemi universitari sono controllati da trustee generalmente nominati dal governatore dello stato, e l’intera leadership è dedita al marketing studentesco. Tutta la catena, dal governatore agli amministratori, lavora per portare rette sempre più alte nelle casse dello stato, e qualcosa in cambio lo devono pur dare. Non avranno mai la reputazione di Harvard o dei professori di Legge di Yale, ma avranno il lazy river più lungo d’America. Non c’entra con la formazione? Proprio questo è il perno della tesi che Bryan Caplan, professore libertario della George Mason University, sviluppa nel suo libro The Case Against Education: Why the Education System Is a Waste of Time and Money: l’università americana di oggi non c’entra nulla con l’educazione. Di conseguenza dovrebbe essere non già eliminata in toto ma fortemente ridotta: va affamata questa bestia ultrasussidiata che mangia circa 1.000 miliardi di dollari l’anno, più del budget della Difesa.

  

Per Caplan, il reale motivo per cui gli americani vanno al college è quello che gli economisti chiamano signaling, cioè l’acquisizione di credenziali che segnalano ai potenziali datori di lavoro un’abilità preesistente. Questa abilità, spiega Caplan, non ha nulla a che vedere con quello che gli studenti hanno imparato in classe, con i contenuti, ma è legata al fatto che i ragazzi sono passati attraverso un processo di selezione, hanno in qualche modo passato le loro ore in classe (non importa come), hanno consegnato i paper in tempo (non importa la qualità) e sono stati abbastanza disciplinati da arrivare alla laurea senza farsi cacciare. Sono segnali sufficienti per chi cerca professionalità medie per la classe media. Che i laureati abbiano nel frattempo cancellato qualunque informazione acquisita, se mai l’hanno acquisita, poco importa, non disturba il segnale. Il valore del college consiste nell’aver fatto il college, ed è questo paradosso circolare che apre spazi sterminati per strategie di investimento legate al packaging universitario più che al contenuto. Caplan vorrebbe eliminare i sussidi statali che reggono le università pubbliche, e sostiene che la cosa non danneggerebbe affatto i giovani più poveri che non potrebbero permettersi il college: nella logica del signaling, iscriversi all’università segnalerebbe a quel punto la presenza di una famiglia facoltosa alle spalle, non di particolari doti intellettuali. L’imprenditore e futurologo Peter Thiel da anni offre una borsa di studio di 100 mila dollari a chi abbandona il college per dedicarsi a produrre qualcosa nel mondo reale, e pure Michael Bloomberg, quintessenza dell’élite con il sigillo universitario, raccomanda ai ragazzi di fare gli idraulici invece di passare gli anni più creativi della loro vita nel lazy river dell’università.

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