Sbarchi a Lesbo (foto LaPresse)

A sinistra e a destra c'è chi vuole chiudere il dibattito sull'immigrazione

Perché occorre far rientrare l’analisi di costi e benefici nel confronto più ideologizzato che ci sia. L’analisi di Ross Douthat sul New York Times

Ross Douthat, columnist conservatore del New York Times, ha dedicato una serie di acuti editoriali al confronto parlamentare sull’immigrazione che è in corso negli Stati Uniti, rispondendo a coloro secondo i quali “non esistono ragioni serie per una restrizione dei flussi migratori”, e per i quali dunque “negoziare con i ‘restrizionisti’ è come negoziare con coloro che credono che la terra sia piatta”. Il punto centrale, secondo Douthat, è che ci sono ottime ragioni per “considerare l’immigrazione come una normale questione di politiche pubbliche, con costi e benefici da valutare”. “Prima di tutto, se da una parte l’immigrazione di massa accresce la diversità, dall’altra essa riduce la coesione sociale e la fiducia civica. Non si tratta di una legge di natura (…) ma è una scoperta decisamente in linea con l’esperienza reale di Europa e America, dove la diversità culturale è aumentata di pari passo con la sfiducia sociale, con il conflitto élite-populisti e con la polarizzazione etnica, religiosa e generazionale dei partiti politici”.

 

Nota bene: “Il problema della fiducia non è semplicemente la questione dei nativi razzisti che non si fidano degli stranieri, visto che la fiducia sociale spesso è più bassa ancora tra le minoranze. Ecco una delle ragioni per cui la generazione con al suo interno maggiore ‘diversità’ di tutta la storia americana, quella dei millennials, è anche quella che si fida meno del prossimo”. Gli “effetti politici” di questa crescente sfiducia sono sotto gli occhi di tutti e non dipendono certo dai Repubblicani trumpiani; per ipotesi, infatti, essi esisterebbero anche se alla Casa Bianca non ci fosse l’ex tycoon: “E’ la ragione per cui la politica nei campus universitari è così intossicata, per cui i Democratici faticano a mantenere politicamente impegnata la loro coalizione così diversificata, e infine per cui la corsa tra Bernie Sanders e Hillary Clinton all’interno del Partito democratico ha causato così tante accuse incrociate di razzismo e sessismo”.

 

Legate a queste tensioni etnoculturali, ci sono “le tensioni di classe”, visto che “l’immigrazione di massa favorisce la stratificazione e la auto-segregazione delle élite. Negli Stati Uniti, così come in Francia e nel Regno Unito, le regioni e le città con il numero maggiore di immigrati sono spesso le più ricche e le più dinamiche. Ma ciò non vuol dire che le regioni più povere stiano deperendo per colpa della loro xenofobia, come a volte si lascia intendere. Gli hinterland sono spesso pieni di persone che vorrebbero trasferirsi in regioni più ricche – o che magari abitavano lì – ma che non possono farlo perché un ecosistema di immigrati-e-professionisti estromette la classe media attraverso prezzi troppo alti”. L’ordine sociale che caratterizza la Baia di San Francisco o di Parigi non può essere adatto a tutto il paese, scrive Douthat, e non è un paradiso nemmeno per “i nativi della classe medio-bassa, né per i discendenti degli stessi immigrati, la cui capacità di progredire più dei loro genitori è limitata dall’arrivo continuo di nuovi lavoratori che competono con loro per posti di lavoro, salari e alloggio”.

 

Di conseguenza “i nostri stati più ricchi e diversi, una volta che si tenga conto anche del costo della vita, sono caratterizzati da alti tassi di povertà, con gli immigrati di seconda e terza generazione risucchiati dalla stessa stagnazione che colpisce i bianchi della classe lavoratrice. Tutto ciò accade lontano dalla vista e dal cuore dei vincitori del sistema che abitano in un mondo in cui vedono soltanto i loro vicini vincitori e una classe ‘di servizio’ multietnica e che lavora sodo. Il che li spinge a un certo disprezzo per i loro concittadini che non vogliono vivere in un sistema castale cosmopolita e che si sentono alienati da scenari futuristici in stile californiano o parigino”. “Per i repubblicani pro-immigrazione, tale senso di superiorità è giustificato dal mito di Ayn Rand, dall’idea che staremo tutti meglio con più immigrati che lavorano in maniera indefessa e con meno nativi tendenzialmente oziosi. Per i liberal pro-immigrazione, c’è invece una forma di trionfalismo culturale: grazie all’immigrazione, in futuro avremo sempre meno a che fare con dei rozzi pistoleri. In entrambi i casi – osserva Douthat – balena sullo sfondo il sogno di un ‘rimpiazzo’, un progetto politicamente corrosivo e indigesto, che è una delle ragioni per cui Donald Trump oggi è presidente degli Stati Uniti e non lo sono invece Jeb Bush o Hillary Clinton”.

 

L’editorialista del New York Times arriva così a definire una possibile soluzione del problema: “Tutto ciò che ho scritto finora è sicuramente soltanto una parte della storia. Non tiene conto dei vantaggi reali dell’immigrazione, siano essi economici e umanitari, vantaggi che certo dovrebbero entrare nel calcolo politico, oltre al fatto che l’immigrazione illegale è in calo e che tutti i problemi che ho indicato sono sicuramente più gestibili in America di quanto non lo siano in Europa. Da qui la mia visione personale, che giudico un compromesso ragionevole, per cui negli Stati Uniti dovremmo mantenere gli attuali livelli di immigrazione, accogliendo però nel paese più immigrati in grado di competere con i ‘vincitori’ della nostra economia e meno immigrati che concorrano invece per posti di lavoro con bassi stipendi. Certo il calcolo non è semplice – conclude Douthat – Tuttavia vale la pena cercare un terreno di incontro, considerato che l’immigrazione gioca un ruolo importante non solo nel determinare la grandezza futura dell’America, ma anche nelle nostre divisioni e nelle nostre delusioni”.