Gianni Cuperlo (foto LaPresse)

Cosa significa essere progressisti?

Matteo Marchesini

Il pamphlet di Gianni Cuperlo e la sinistra che deve invertire la rotta immaginando il futuro ma anche analizzando il passato 

Leggendo “Sinistra, e poi”, il pamphlet di Gianni Cuperlo uscito da Donzelli, pensavo a un passo in cui il suo conterraneo Saba sostiene che gli italiani non lo comprendono perché sono neri o rossi, mentre Trieste e la sua poesia – la sua pupilla – sono “azzurri”. Come il poeta del “Canzoniere”, l’occhiceruleo dirigente della minoranza democratica è preso tra due fuochi. Abituata agli smembramenti e aperta al mare, la loro città ispira una gentilezza limpida che giova all’equilibrio ma non al successo. In queste pagine, col consueto antimanicheismo, Cuperlo ribadisce che l’impasse della sinistra non può essere risolta né dal Pd attuale né dai fuoriusciti: “Se il motore si è rotto puoi cambiare autista, ma la macchina non partirà lo stesso”.

 

Il centralismo democratico sottovuoto di Renzi, e la scissione paradossale degli ex comunisti che vorrebbero ridurlo a un “inciso sgraziato”, sono solo le ultime conseguenze dell’errore di rotta compiuto dopo la liquidazione del Pci. Storia nota: mentre sbiadivano le utopie, e la cornice teorica che le autorizzava, la strategia è stata inghiottita dalla tattica, e ci si è illusi di poter sommare a freddo sigle, basi sociali, soluzioni settoriali e contingenti. Così, di fronte alla crisi, i progressisti che avevano cercato di aderire con juicio al neoliberalismo non hanno trovato nulla da opporle, e “Il collasso del capitalismo reale si è risolto nel processo a una sinistra virtuale” (superior stabat lupus). Se non si offrono alternative, la triste scienza economica che ha asservito la politica continua a fingersi oggettiva anche quando fallisce, e lo spazio lasciato vuoto dalla teoria della prassi lo occupano i demagoghi.

 

In questo quadro, abbozzato da Cuperlo con ellissi sallustiane e liriche sentenze, c’è molto di vero. Però per invertire una rotta sbagliata bisogna guardare al lungo periodo non solo immaginando il futuro ma anche analizzando il passato. Credo che le radici dell’impasse siano più antiche del postcomunismo. Alcuni processano il moralismo berlingueriano, ombra ambigua di un Pci che intanto adagiava il suo corpaccione nella palude partitocratica. Ma questa schizofrenia affonda nelle scelte dell’assai meno moralista Togliatti. La doppiezza ha permesso ai comunisti di pensarsi rivoluzionari a costo zero e di agire da socialdemocratici goffi, impotenti, o viceversa fin troppo efficaci nel ridurre la politica ad amministrazione: ha generato, cioè, un’enorme bolla di ideologia, ereditata anche dalla Nuova sinistra e da tutte le sfumature dell’arcobaleno postmarxista. Di qui la doppia sterilità di un movimentismo velleitario e di uno speculare riflesso da uomini d’ordine che rende, diciamo così, più realisti della legge Reale: ne sa qualcosa Minniti, criticato nel capitolo sui migranti. In mezzo restano schiacciati le riforme coraggiose e lo stato di diritto.

 

Per completare l’analisi, andrebbero poi aggiunte altre verità che Cuperlo sfiora appena. Ad esempio, il welfare della Prima Repubblica sarebbe stato impensabile senza la minaccia sovietica. Il terrore a est ha favorito l’espansione dei diritti sociali a ovest: e quando ci s’interroga sulle sconfitte recenti non si possono dare risposte attendibili senza ricordare questi rapporti di forza. Ancora. Se la crisi riguarda l’occidente, mentre la globalizzazione aiuta una parte del pianeta prima tenuta ai margini, occorre ammettere che dobbiamo gestire il nostro declino: e senza questa ammissione, la sinistra rischia di sbagliare unità di misura e priorità. Ultimo appunto.

 

Se è vero che l’azione senza una visione del mondo diventa insensata, è altrettanto vero che i tentativi integralisti di fondere politica e cultura sono costati nel Novecento oceani di sangue e mistificazioni puerili. I partiti anglosassoni, accettando di presentarsi esplicitamente come aggregati di interessi e assumendosi precise responsabilità di governo, producono meno fanatismo e ideologia dei partiti continentali, che con le loro maschere idealistiche incentivano la stagnazione corruttrice, l’idolatria astratta dello stato e i colpi di mano. Ma in certi casi e accezioni, c’è davvero bisogno urgente di una “cultura” che colmi lo iato tra gli sbiaditi sfondi utopici e le chiacchiere da buvette. Negli ultimi vent’anni, per dire, i dirigenti della sinistra sono stati quasi oltranzisticamente europeisti, ma il loro machiavellismo ha impedito che questa tendenza d’élite divenisse senso comune argomentato: così, ora che l’edificio dell’Europa scricchiola, non trova il suo popolo a puntellarlo. Ma infine, oggi più che mai un’altra triste scienza ci avvisa che i mutamenti di cultura e politica li impone lo sviluppo tecnologico, a cui cultura e politica corrono dietro ansando. Le possibilità offerte dalla tecnologia si avverano inevitabilmente, come inevitabilmente, secondo Cechov, devono sparare le pistole che appaiono in un dramma. Torna dunque una domanda già vecchia: davanti a un progresso obbligato a cui è inutile suonare il piffero, a un progresso più simile a una camicia di forza che a una forza emancipatrice, cosa significa dirsi “progressisti”?

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