La manifestazione dei nazionalisti polacchi dello scorso 11 novembre a Varsavia (foto via Twitter)

Quali sono le chiavi del successo dei populisti in Europa dell'est

Micol Flammini

Tra Parigi e Berlino l’ondata populista è indebolita, ma a Varsavia e a Budapest stravince anche se l’economia va bene. Una ricerca

Roma. Non tutti i populismi sono uguali. E se nella vulgata quotidiana abbiamo la tendenza ad accomunare Le Pen a Orbán, Salvini a Kaczynski, in realtà nel populismo europeo c’è una grossa divisione longitudinale, tra occidente e oriente. Lo racconta bene Slawomir Sierakowski, direttore dell’Institute for advanced study di Varsavia. In un articolo, “How eastern european populism is different”, spiega perché non è possibile paragonare l’ascesa di Donald Trump negli Stati Uniti o la vittoria del leave nel Regno Unito con la radicalizzazione dei populismi nell’Europa orientale. Come hanno dimostrato anche Martin Eiermann, Yascha Mounk e Limor Goultchin, politologi del Tony Blair Institute for global change, solo a est i partiti populisti battono i partiti tradizionali durante le elezioni.

 

Di quindici paesi, i nazionalisti attualmente detengono il potere in sette, in due appartengono alla coalizione di governo e in tre costituiscono la principale forza di opposizione. Il fenomeno non è dettato dalla crisi economica, anzi, l’economia di questi paesi sta benissimo. Non è nemmeno un discorso di classe: in Polonia la borghesia ha votato Kaczynski e in Ungheria Orbán. A tessere il fil rouge che lega assieme queste nazioni è la storia. La fascinazione dell’Europa orientale per i populismi si fonda su ragioni sociali e fattori politici. Primo tra tutti, il silenzio delle sinistre. La sinistra, nei paesi ex comunisti, è molto debole a causa dell’eredità sovietica. La conseguenza è che il dibattito politico esaspera una logica manichea. La distinzione non è più tra destra e sinistra, ma tra giusto e sbagliato. Secondo Sierakowski, la scelta politica degli elettori dell’est Europa è guidata da questa dicotomia. Poi c’è un problema costituzionale.

 

I paesi orientali non hanno quella tradizione di controlli ed equilibri che i paesi occidentali hanno posto per salvaguardare la democrazia. Un’ulteriore differenza importante sta nel concetto di confine. L’Europa occidentale ha da tempo superato la paura fisica di un attacco, di un’invasione o di una guerra sul suo territorio. A oriente, la frontiera è ancora un’idea antica da collegare all’idea di difesa e questo spinge i popoli dell’est ad abbracciare quei valori che il sociologo Ronald Inglehart definisce post materialistici. L’Europa orientale è ossessionata dai propri confini, questo porta i governi a versare molti soldi alla Nato e l’elettorato a votare partiti che ostentano una politica più muscolare.

 

Le istituzioni liberali e il loro sviluppo sono un altro problema. Dopotutto il liberalismo nell’Europa orientale è un’importazione, i partiti populisti non fanno fatica ad attaccare l’indipendenza giudiziaria o la libertà di parola perché non sono delle istituzioni maturate e interiorizzate. Nonostante Trump e la Brexit, gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno una cultura del liberalismo politico e sociale profondamente radicata, nell’Europa orientale, la società civile non solo è più debole, ma vive anche la politica con maggiore distacco, e preferisce altre dimensioni, prima tra tutte quella religiosa.

  

Il populismo è dunque un’ideologia sottile e variegata che potrebbe ridisegnare i confini culturali e a sua volta politici dell’Unione europea. In occidente non sta vincendo come a oriente, ma potrebbe comunque conquistare i governi. Come? La risposta la suggerisce l’Economist questa settimana, secondo cui il successo del populismo ha costretto i partiti conservatori tradizionali ad appropriarsi di parte dell’agenda degli estremisti per sopravvivere. I populisti non vinceranno, ma forse sono già mainstream.

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