Donald Trump (foto LaPresse)

Trump opera in continuità con Obama per il dominio dell'energia

Gabriele Moccia

Tutti gli obiettivi della diplomazia americana in Europa per insidiare la Russia. Sulle tracce di Sue Saarnio

Roma. Marocco, Turchia, Georgia e Azerbaijian. Basta seguire le tappe della fittissima agenda internazionale della settimana scorsa di Sue Saarnio, l’Inviata speciale e coordinatrice per gli Affari energetici internazionali del dipartimento di Stato degli Stati Uniti, per capire come la strategia energetica americana stia lentamente virando da una dottrina dell’indipendenza a una dottrina della dominanza. Bloomberg Business Week in edicola ha dedicato la copertina al potenziale rivolgimento dell’ordine geopolitico derivante dalla strategia americana, ovvero di Donald Trump. In realtà c’è un filo conduttore che – lungi dall’essere in contrapposizione con quanto fatto dall’Amministrazione precedente – è al contrario il prosieguo (solo in apparenza strano) delle scelte adottate da Barack Obama qualche anno fa. Fu il presidente “green” nel 2015 a operare la rimozione del divieto dell’esportazione di petrolio da parte del Congresso, allora una mossa storica per l’industria americana. Un blocco, introdotto nel 1973 in piena crisi petrolifera per rilanciare le compagnie nazionali, che legava mani e piedi – parole dello stesso Obama – il sistema produttivo americano alle petro-monarchie del Golfo. Oggi Trump può continuare su questo solco grazie ad alcuni fattori industriali promettenti per Washington e a una geopolitica ancora più aggressiva rispetto a quella del suo predecessore, per ritornare all’agenda della diplomatica Saarnio.

  

Partendo dai dati, secondo le stime più recenti, il cammino della spinta produttiva di idrocarburi è lontano dal raggiungere una fase di stasi. Al contrario, come ha riferito di recente l’Agenzia internazionale dell’energia, nel corso dei prossimi dodici mesi gli Stati Uniti potranno superare l’Arabia Saudita come secondo maggiore produttore globale di petrolio e quindi provare a contendere alla Russia il gradino più alto del podio. Come si legge nell’ultimo rapporto mensile, la produzione americana supererà, infatti, i 10 milioni di barili al giorno nel 2018, un livello mai raggiunto dagli Anni Settanta. Il terreno per una solida espansione è stato preparato l’anno scorso quando l’offerta dei paesi non Opec, guidati dagli Stati Uniti, hanno spinto verso l’alto la produzione globale, bilanciando i tagli introdotti dall’Opec e da altri produttori. La risalita del prezzo del greggio continua poi ad alimentare la febbre dello shale gas. La corsa all’oro blu delinea quasi certamente uno scenario prossimo di eccesso di produzione. Come si legge in un report dell’agenzia di rating Fitch, sul mercato del gas, Stati Uniti, Australia e altri produttori stanno aumentando le loro capacità, con la conseguenza che i prezzi spot subiranno una diminuzione fino a quando non riprenderà la domanda, si legge in un rapporto dell'agenzia. Da Davos, il segretario all’Energia, Rick Perry, non poteva essere più chiaro, parlando delle esportazioni di shale, Perry ha detto che gli Stati Uniti “non stanno esportando solo energia, ma stanno esportando libertà. Stiamo esportando verso i nostri alleati in Europa la libertà di scegliere la loro fonte di approvvigionamento dell’energia”. Uno degli scacchieri dove si misura la nuova dottrina della dominanza energetica imposta da Trump è certamente l’Europa orientale. Anche in questo caso si tratta di una riedizione delle mosse già messe in atto da Obama. In questo senso, la stessa Sue Saarnio ha preso il testimone di un’altra figura della precedente Amministrazione, quella di Amos Hochstein, che fu Inviato speciale per gli affari energetici internazionali del presidente. Hochstein, che oggi è vice presidente proprio di una società americana che si occupa di produzione e trasporto di shale gas, la Tellurian Inc., in passato è stato il braccio operativo dell’aggressiva linea di Obama per contenere le mire energetiche russe in Europa e nel Mediterraneo, lavorando per affossare i progetti di raddoppio del Nord Stream e per arginare i tentativi di Mosca di allacciare i propri tubi alla Grecia. In piena linea di continuità, oggi Sue Saarnio, gira le capitali europee – quelle rivolte a oriente in particolare – e dell’Asia centrale, puntellando la nuova postura strategica. La Saarnio è volata fino in Turkmenistan (vicinissimo a Mosca) per perorare la causa di un vecchissimo tubo, il Trans-Caspian Gas Pipeline, che Washington vorrebbe riesumare per spaventare ancora di più i russi.

   

In questi giorni, un’altra pedina di Trump, il segretario di stato, Rex Tillerson, è volato a Varsavia per incontrare il suo omologo, Jacek Czaputowicz. Tillerson ha usato toni quasi da Guerra fredda, quando davanti ai giornalisti locali ha sostenuto che spetta alle compagnie americane e non alla Russia il diritto di garantire la sicurezza energetica della Polonia. Per questo motivo una delle infrastrutture energetiche più importanti per gli Usa è diventato il progetto legato all’espansione gasdotto caucasico meridionale (Scpx) che la Georgia, sostenuta da Washington, sta portando avanti per trasportare il gas azero del giacimento di Shah Deniz nel Mar Caspio verso l’Europa centro-orientale. Per Mosca il gasdotto caucasico è una vera spina nel fianco se non un vero affronto geopolitico. La Georgia non è solo uno dei nemici del Cremlino, ma il completamento del gasdotto, insieme alla conclusione dei lavori sul Corridoio energetico sud (il Tap per intenderci) rischia di far venire meno i presupposti economici per il completamento dei piani russi di penetrazione energetica dell’Europa meridionale, attraverso il gasdotto del Turkish Stream. Anche nei Balcani gli americani si stanno muovendo con maggior coraggio: Stati Uniti e Croazia stanno, infatti, lavorando alla costruzione di un rigassificatore sull’isola di Veglia. Il sostegno degli Stati Uniti al progetto è stato ribadito dall'assistente del segretario di Stato per l’Europa e l’Eurasia Aaron Wess Mitchel, il quale ha parlato del “pieno sostegno a un progetto strategico”. La dottrina trumpista della dominanza energetica sembra dunque aver scelto proprio il vecchio continente per esercitare il proprio vigore, forse sfruttando anche le difficoltà (sempre più visibili) di Bruxelles e dei paesi fondatori dell’Ue (tra i quali anche l’Italia evidentemente) nell’elaborare una coraggiosa quanto efficace geopolitica.