Contro la solitudine

Paola Peduzzi

Può un ministro darci un sussidio perché abbiamo bisogno d’affetto? La forza di dire: “Guardami”

Guardami, parlami, salutami, abbracciami. Curami, soprattutto. La solitudine è una malattia, vale come quindici sigarette al giorno, ci si può morire, perché sei più debole e soprattutto ti passa la voglia, non combatti contro le infezioni e mangi molto, ti lasci andare, a chi vuoi che interessi di quel che ne sarà di me. Uno studio pubblicato in America l’estate scorsa dall’Associazione degli psicologi americani dice che 42,6 milioni di adulti che hanno più di 45 anni soffrono di “solitudine cronica”, ma il fenomeno è stato riscontrato anche in Europa, Australia e in alcuni paesi asiatici. C’è una connessione diretta, dicono gli esperti, tra la solitudine e la morte prematura, ma più interessante è la relazione tra questi studi sulla salute e il censimento americano. Un quarto della popolazione non è sposato, i matrimoni sono sempre di meno, e anche i figli diminuiscono: “Gli americani stanno diventando sempre meno integrati socialmente, sempre più soli”.

 

La solitudine è un’epidemia
in occidente. La teoria di Tocqueville e quella che prevale dagli anni 70: colpa del liberismo

In “Bowling alone”, un saggio del 2000 che fece molto riflettere sulla relazione tra il deterioramento del cosiddetto “capitale sociale” e la democrazia – più sono integrato più partecipo alla vita pubblica, la solitudine invece ci rende tutti disaffezionati, molto indignati, oggi diremmo in un soffio: populisti – Robert Putnam introdusse l’ormai celebre metafora del bowling: negli anni Ottanta e Novanta le sale da bowling si sono riempite, una crescita ininterrotta, più 20 per cento di appassionati, ma la partecipazione a squadre e a tornei è crollata. Se vai a giocare a bowling da solo, eviti quelle interazioni, quelle discussioni, quei confronti che sono l’antidoto alla solitudine, e il carburante della democrazia. Quando Tocqueville andò negli Stati Uniti nella prima metà dell’Ottocento, fu colpito dalla “propensione all’associazione sociale” degli americani: “Cittadini di ogni età, in ogni fase della loro vita e con ogni tipo di predisposizione formano di continuo associazioni. Non ci sono soltanto associazioni commerciali o industriali, ma altre centinaia di associazioni religiose, morali, serie, futili, molto generali e molto circoscritte, molto grandi e molto piccole. Nulla secondo me merita più attenzione delle associazioni morali e intellettuali in America”. Quel patrimonio luccicante sembra andato distrutto.

 

In “The Pursuit of Loneliness”, un libro degli anni 70 che nel titolo parafrasava quell’altra ricerca, quella che sta scritta nel dna costituzionale dell’America, la ricerca della felicità, il professore sociologo Philip Slater sosteneva che l’occidente se l’era cercata, la solitudine. Con l’individualismo, il consumismo, l’allontanamento dalle comunità per trovare il piacere personale. Dopo quel libro, che ebbe un enorme successo, anche Slater decise di cambiare vita, lasciò l’università dove insegnava, provò a vivere senza nulla, scrivendo altri libri e aggiornando quelli già pubblicati, facendo l’attore, con qualche problema a pagare le bollette, ma trovando comunque il tempo di innamorarsi di quattro mogli. Quando è morto ultraottanntenne qualche anno fa, nei necrologi si è stabilito che era stato il primo sociologo a sottolineare con una certa efficacia che “personal is political”, che quel che accade nella politica interna ed estera di un paese è il frutto di quel che accade nella vita e nel cuore delle persone che lo abitano, nella loro quotidianità: se gli americani avevano scelto di essere soli, affascinati dal mito dell’individualismo e della carriera, anche l’America era un paese solo.  O isolato, che un po’ è la stessa cosa.

 

La ministra per la Solitudine
in Inghilterra deve risolvere
un problema che vale 32 miliardi
di sterline ogni anno

Oggi siamo ancora qui a provare a spiegare la solitudine, che nel frattempo è diventata “un’epidemia”, l’accidente più grande della vita moderna: più la tecnologia ci spinge a ritrovarci, grandi rimpatriate sugli smartphone frugando tra i profili sui social, più i dati, gli studi – di psicologi, di sociologi, di genetisti anche, topi di laboratorio soli che ci rappresentano – dicono che da questa malattia non si guarisce. Non c’è una cura. Oprah Winfrey, che come si sa è la più grande intercettatrice di tendenze e di bisogni del globo terrestre, patrocinò qualche anno fa un’iniziativa  che si chiamava “Just say hello”: ti basta salutarmi, dirmi ciao, non ignorarmi, la solitudine si può sconfiggere anche con due parole scambiate mentre stai in fila alla cassa del supermercato. Per renderla più efficace, la campagna è stata venduta come una scelta salutista: era appena stato pubblicato un libro di un professore dell’Università di Chicago, John Cacioppo, in cui si spiegava che l’inquinamento, l’obesità, l’abuso di alcol aumentano il rischio di mortalità rispettivamente del 6, 23, 37 per cento, mentre per la solitudine questo valore era al 45 per cento. Sì: 45 per cento di probabilità in più di morire, di solitudine. E le persone più anziane se non interagiscono con il resto del mondo hanno il 64 per cento di probabilità in più degli altri di ammalarsi di demenza senile. Quindi se volete vivere a lungo, imparate a interagire, salutatevi al parchetto, non fate finta di poter vivere nel lusso di Guccini, che canta “nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento”: lui è un privilegiato.

 

Richard Schwartz, uno psichiatra che ha fatto uno studio sulla “Lonely America”, ha scoperto che è più facile che uno ammetta di essere depresso che di essere solo, “perché solo è sinonimo di perdente”. Gli inglesi parlano della “Eleonor Rigby generation”, dalla canzone dei Beatles sulla solitudine – “All the lonely people, where do they all come from? All the lonely people, where do they all belong?” – ma non è chiaro a che generazione facciano riferimento: forse parlano di un popolo intero, perché i britannici sembrano tutti soli, da sempre, e sempre di più. O isolati, che è un po’ la stessa cosa.

 

Non è un caso che il primo ministro per la Solitudine della storia sia stato nominato nel Regno Unito (è una ministra, si chiama Tracey Crouch, nel suo portafoglio ci sono anche lo sport e la società civile). A indurre la premier, Theresa May, a creare questo ruolo è stato un report pubblicato dalla commissione parlamentare bipartisan che porta il nome di Jo Cox, la deputata laburista uccisa da un estremista di destra che, gridando “Britain first”, le sparò e la accoltellò, qualche giorno prima del referendum sulla Brexit. Il nonno della Cox faceva il postino, e quando era piccina lei ogni tanto lo accompagnava nei giri per consegnare la posta: era rimasta colpita dal fatto che il nonno si intrattenesse con decine di persone ogni giorno, chiacchiere semplici e banali, che per molti di quegli interlocutori forse rappresentavano le uniche parole scambiate nell’intera giornata. Quando divenne parlamentare, la Cox pose la questione della solitudine ai colleghi, ed è così che nacque quella “conversazione nazionale” che ha portato alla commissione, al report e al ministro.

 

Quel che accade a un paese
è lo specchio di quel che accade
nel cuore dei suoi abitanti. Se sei solo, anche il paese è solo, o isolato

 

“Negli ultimi decenni – dice lo studio – la solitudine è passata da disagio personale a epidemia sociale. Sempre più gente vive da sola. Lavoriamo più da casa, soli. Passiamo buona parte della nostra giornata da soli, molto più di quanto facevamo dieci anni fa. Spesso sembra che il nostro migliore amico sia lo smartphone”. La solitudine è dei più anziani ma anche dei più giovani, la bolla della socialità che si è formata in questi anni di dittatura della “connessione sociale” ci è scoppiata addosso – nessuno alza più il telefono, si è tutti amici, colleghi, amanti di penna – dobbiamo soltanto capire come ripulire le macchie. Rachel Reeves, la parlamentare laburista che ha preso il posto della Cox nella commissione, ha detto presentando lo studio che se William Beveridge fosse vivo oggi nel suo rapporto sulla “sicurezza sociale” che fece da canovaccio della riforma dello stato sociale britannico nel Dopoguerra, alle sfide di allora, povertà e ignoranza, aggiungerebbe anche la solitudine. Che ha un costo molto alto, come tutte le malattie che si vogliono curare: 32 miliardi di sterline ogni anno.

Come negli anni Settanta – siamo nella stagione della nostalgia, del resto – anche oggi molti sostengono che le cause di questo impoverimento sociale siano i soliti noti: la globalizzazione, il consumismo, l’austerità – in una parola: il neoliberismo. Distaccandoci dalle realtà locali per inseguire sogni globali, siamo rimasti soli. I “dimenticati” sono “i soli”.

 

In una column sul Financial Times, Simon Kuper, che è un osservatore molto attento del presente, ha tracciato un collegamento tra la polarizzazione ideologica che contraddistingue le nostre società oggi – le bolle in cui ognuno di noi vive, vittima delle proprie convinzioni, dei propri interessi, delle fake news che ci paiono plausibili – e la solitudine. Per non sentirci soli, andiamo a ritrovare compagnia nelle bolle, ha scritto Kuper: la solitudine alimenta la polarizzazione. E’ bene esserne consapevoli, se davvero si vuole combattere la solitudine. “Le nuove tribù politiche – scrive Kuper facendo in particolare riferimento ai trumpiani e ai brexiteers, che sono le più studiate e citate – possono fornire un’identità più forte di quanto facciano le nazioni o anche le famiglie, come testimoniano le liti nelle case americane quando i nipoti liberal vanno a trovare i nonni trumpiani per il Ringraziamento. Questi conflitti sono stressanti. Ma il vantaggio è riscoprire un’appartenenza”.

 

Psicologi, sociologi, genetisti:
tutti si sono occupati della malattia dell’età moderna. Che uccide come 15 sigarette fumate ogni giorno

Quando il Regno Unito ha nominato la sua ministra per la Solitudine, dall’altra parte dell’oceano, in America, c’è chi si teneva la pancia dal ridere. Questi inglesi non perdono proprio occasione per farsi prendere in giro, hanno detto molti, immaginando questo ministero in versione harrypotteriana, perso nelle nebbie gotiche di Hogwarts, di certo vicino a qualche mago oscuro, Voldemort in persona anche, quando si materializza. Sul New Yorker, Rebecca Mead ha scritto che in realtà c’è poco da ridere, la solitudine è una malattia che uccide, piano con i sorrisetti, ma anche lei intravvede una contraddizione culturale: “In un paese in cui gli abitanti sono tradizionalmente così abbottonati, schiavi del contegno, in come ridono o in come si muovono – ha scritto la Mead – la nomina del ministro per la Solitudine fornisce un contrappunto ironico alla caricatura nazionale. Se la caratteristica prevalente di un paese è una riservatezza cronica, congenita ed emozionale, come fanno i suoi abitanti anche solo a capire di essere soli? Questa nomina sembra affrontare una malattia che il Regno Unito non ammette neppure di avere, è come se l’America si dotasse di un segretario all’Umiltà”.

 

Stephen Colbert, durante il suo “Late Show”, ha cercato di capire come può funzionare un ministero dedicato alla solitudine – in due minuti l’ha massacrato. “Ministro per la Solitudine suona come un eufemismo vittoriano per ‘gigolò’”, ha detto Colbert: ehi buonasera, sono qui pronto a curare la tua solitudine. Come si fa a misurare la solitudine, come si fa a dire che ci sono nove milioni di inglesi che si sentono soli, che domande hai fatto, e a chi? E per curarti cosa fai, chiedi assistenza per un po’ più d’affetto? E se il ministero te la rifiuta, magari perché non sei riuscito a compilare del tutto il modulo necessario per avere i sussidi anti solitudine, ti appelli? A chi? E dicendo cosa: ehi, sono solo per davvero? “Questa cosa è così tipica degli inglesi – ha concluso Colbert – Circoscrivono il più ineffabile dei problemi dell’uomo e trovano la soluzione più fredda e burocratica che c’è”. Il passo verso Theresa May è cortissimo: la solitudine è la sua, così poco amata, così poco compresa, alle prese con l’atto di solitudine più grande della storia inglese, il divorzio dall’Europa. “Personal is political”, gli inglesi sono soli, il Regno Unito è solo. E lo è il suo governo: se dice “abbracciatevi” non lo ascolta nessuno. Però poi ci sono le persone, il loro sguardo, la nostra salvezza: “Look at all the lonely people” cantavano i Beatles. Tu intanto guardami, parlami, salutami, abbracciami: non lo dice la May, te lo dico io.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi