Donald Trump (foto LaPresse)

Perché i detrattori di Trump potrebbero rimanere delusi

Gianni Castellaneta

Il presidente ha superato quasi indenne il suo primo anno di mandato. E la sua esperienza alla Casa Bianca sembra destinata a durare 

Al momento della sua elezione, decisamente inattesa dalla maggior parte degli osservatori politici, in pochi avrebbero scommesso che Donald Trump sarebbe riuscito a concludere almeno un anno da Presidente degli Stati Uniti. L’inesperienza, gli scandali, il “fuoco amico” del Partito Repubblicano (che ancora non lo ha assimilato), avrebbero avuto un ruolo decisivo nel rapido “sfratto” dalla Casa Bianca dell’inquilino giunto da New York dopo una carriera divisa tra imprenditoria e televisione. E invece, ad un anno esatto da quella “pazza” notte elettorale, Trump è ancora in sella, è ha tagliato il traguardo dei suoi primi 365 giorni come uomo più potente del pianeta.

 

Non sono mancati episodi “coloriti” e poco in linea con la sobrietà istituzionale a cui ci aveva abituati il predecessore Obama. Certamente Trump ha pagato anche l’inesperienza di essere catapultato in un mondo non suo, non conoscendo tempi, modalità e linguaggi propri della politica. Eppure, a ben vedere la sua Presidenza si è dimostrata fino ad ora meno imprevedibile di quanto si possa pensare. È innegabile che alcuni provvedimenti siano stati di rottura con le politiche passate: pensiamo alla decisione di uscire dai grandi accordi commerciali con la Regione del Pacifico (il TPP)  e quello con l’UE (il TTIP), oppure al clamoroso abbandono degli impegni presi dall’Accordo di Parigi contro il cambiamento climatico. Non si tratta che di un approccio differente, basato sul bilateralismo più che sul multilateralismo e la concertazione, e sulla priorità data alla difesa degli interessi nazionali, da perseguire anche unilateralmente qualora non fosse possibile farlo collaborando con i partners. A livello internazionale, gli USA di Trump si sono fatti dunque promotori di un minore interventismo, volto a limitare l’azione di Washington solo nei casi in cui sia necessario intervenire per tutelare i propri interessi senza che questo comporti un totale disimpegno dalle grandi questioni internazionali, poiché gli Stati Uniti rimangono sempre lo stakeholder più importante e più potente – quantomeno in termini relativi - sulla scena internazionale.

 

A livello interno, Trump sembra essere riuscito finalmente ad aggiustare il tiro, dopo un inizio particolarmente stentato a causa di scelte non proprio felici per quanto riguarda la composizione del suo staff. La rinuncia a Steve Bannon come principale “stratega” è stata il segno più evidente di un’inversione di tendenza che ha imposto la necessità di una maggiore moderazione e il coinvolgimento di personalità più in linea con l’establishment statunitense. La recente nomina di Jay Powell a nuovo governatore della Federal Reserve si inserisce  nel solco di una sostanziale continuità con la politica monetaria condotta negli ultimi anni da Janet Yellen. I continui passi falsi dei primi mesi hanno limitato l’efficacia dell’azione di governo, impedendo al Presidente di realizzare promesse alla base della sua campagna elettorale quali la riforma fiscale e la costruzione del muro al confine con il Messico, così come la messa in atto del “muslim ban”. Trump sta ritentando in queste settimane di fare approvare al Congresso la sua riforma del fisco, ma l’esito di questo braccio di ferro non è scontato e potrebbe concludersi con una sconfitta in Senato. Eppure, l’economia nordamericana continua a registrare ottime performance, con tassi di crescita invidiabili in Europa e livelli di disoccupazione bassissimi.

 

Cosa si deve aspettare ora? Il prossimo banco di prova ufficiale saranno le elezioni di medio termine, in programma tra un anno: un test fondamentale per verificare se le promesse di Trump riusciranno ancora a fare presa sull’elettorato. Le difficoltà in cui versa il Partito Democratico potrebbero mascherare i problemi del GOP, facilitando così il cammino del Presidente verso la conclusione del suo primo mandato. Difficilmente il Russiagate riuscirà ad arrivare fino allo Studio Ovale, giacché l’impeachment è una pratica estrema a cui forse in pochi desiderano davvero ricorrere. Il Presidente-tycoon sembra dunque destinato a durare, con buona pace dei suoi detrattori, che forse dovranno accettare che l’elezione di Trump non è stata frutto del caso quanto della scelta consapevole degli elettori.