I parlamentari arabi che alla Knesset hanno interrotto il discorso di Pence

Gli obiettori d'Israele hanno sempre il clamore dei media. Ma sono fake news

Giulio Meotti

La claque giornalistica e i numeri veri

Roma. Tredici parlamentari arabi alla Knesset hanno interrotto il discorso del vicepresidente americano Mike Pence brandendo cartelli con scritto “Gerusalemme, capitale della Palestina” e lanciando slogan in arabo. In nessun altro organo legislativo in medio oriente, sempre che se ne trovi un altro democratico, si assisterebbe a una scena del genere. Israele è una grande democrazia pluralista e liberale che tutela il diritto a qualsiasi opinione, anche quelle considerate sleali e scandalose in un paese in guerra sin dalla sua fondazione (Haaretz ieri ha pubblicato una pagina di invito a boicottare Israele). Ma i media di tutto il mondo, anche italiani, da un mese pubblicano articoli sugli obiettori di coscienza israeliani che potrebbero rientrare nella categoria delle fake news.

 

Ieri è stata la volta dei piloti della compagnia aerea El Al contrari al rimpatrio dei migranti africani, su cui il governo di Benjamin Netanyahu ha appena deciso una stretta. Newsweek ieri titolava: “I piloti israeliani si rifiutano di deportare i rifugiati in Africa”. “Non farò volare i rifugiati verso la morte. Non parteciperò a questa barbarie”, ha scritto su Facebook uno dei piloti, Iddo Elad. Un altro pilota, Shaul Betzer, sempre su Facebook: “Come pilota e come essere umano non intendo partecipare in alcun modo al trasporto dei rifugiati in un luogo dove le possibilità di sopravvivenza, per loro, sono ridotte a zero”. Salvo scoprire che si tratta soltanto di tre piloti della El Al. Tre piloti sui 600 attualmente impiegati dalla compagnia di bandiera israeliana. Ma tre sono sufficienti per fare notizia in tutto il mondo.

 

Poi c’è stato il caso dei “rabbini” che hanno invitato a nascondere i rifugiati africani nelle proprie case, “come Anne Frank”. L’idea e il paragone, un tantino azzardati, sono venuti a Susan Silverman, rabbina progressista di Boston sorella della comica Sarah, oltre che a capo dell’organizzazione Rabbini per i diritti umani. Si tratta di un gruppo ultra minoritario legato all’estrema sinistra e con influenza pari a zero nella società israeliana. Ma sufficienti per incassare gli applausi dei media del mondo (anche il Corriere della sera ha dedicato loro una intera pagina).

 

Pochi giorni prima è stata la volta della lettera, anche questa rimbalzata sui giornali di tutto il mondo, di 63 liceali israeliani che hanno rifiutato la leva obbligatoria in segno di protesta con l’“occupazione israeliana”. Ogni anno, Israele porta nelle file dell’esercito settemila nuove reclute. 63 nuovi soldati su settemila. Anche in questo caso sufficienti a fare spam sui media, a testimonianza del rifiuto della presenza israeliana nei territori conquistati nel 1967. I toni sono familiari: “Un governo razzista… Un’ideologia militarista… Un sistema capitalista”. La sinistra più radicale. La lettera è stata organizzata infatti dalla rete di Mesarvot, una ong così radicale che perfino il New Israel Fund di sinistra si è rifiutato di sostenere. “Abbiamo linee rosse”, ha detto il direttore esecutivo Mickey Gitzin. Non tutti gli argomenti sollevati dagli studenti sono necessariamente sbagliati, ma il loro rifiuto di prestare servizio è il risultato di una propaganda antisraeliana piena di bugie. Secondo la lettera, la barriera di separazione ha diviso la Cisgiordania da cinquant’anni. Cinquant’anni? La recinzione è stata costruita per fermare la più grande ondata di attacchi terroristici che Israele ha vissuto negli ultimi dieci anni. Esistono barriere di separazione anche in Europa e in America. E di tutte le barriere, quella tra Israele e i palestinesi è la più legittima di tutte. Ma quando si tratta di coloro che considerano legittimo il rifiuto di prestare servizio nell’esercito israeliano, anche un muro salva-vita diventa un crimine.

 

Non hanno fatto notizia le 650 reclute che hanno risposto con una loro contro-lettera a quella dei 63: “Serviremo ovunque Israele abbia bisogno di noi. Vogliamo dichiarare che continueremo a prestare servizio nell’esercito e nel servizio nazionale per difendere la gente e il nostro paese”. Il New York Times, non proprio l’ultimo dei media al mondo, ha pubblicato un articolo di uno di questi obiettori dal titolo: “Perché non servirò nell’esercito israeliano”. I giornali israeliani sono pieni di storie simili, pegno di un pluralismo che fa di Israele l’unica democrazia dal Marocco all’India. Ma lo stesso New York Times non pubblicherebbe mai l’articolo di uno dei 650 fieri di servire Israele. A proposito di fake news.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.