Un manifestante palestinese lancia pietre contro le forze di sicurezza israeliana nella West Bank, dopo l'annuncio di ieri di Trump (foto LaPresse)

Gerusalemme, intifada e illusioni

Redazione

Trump non ha ucciso il processo di pace, l’ha dichiarato morto. Scontri in Cisgiordania e nella Striscia

Milano. Israele ha rafforzato la sicurezza in tutto il paese e ha inviato nuovi battaglioni e unità dell’intelligence militare a Gerusalemme, nei Territori palestinesi della Cisgiordania e lungo la barriera con la Striscia di Gaza. Nel venerdì della rabbia, dopo la preghiera islamica di domani, si prevede che centinaia di palestinesi scendano nelle strade. Il timore è che le violenze possano essere più estese e fatali di quelle di giovedì. A Ramallah, Nablus, Jenin, Hebron e in molte altre cittadine della Cisgiordania come a Gerusalemme est ci sono stati infatti scontri tra manifestanti palestinesi e forze dell’ordine ed esercito israeliani, con decine di feriti. Una folla ha invece lanciato pietre contro i soldati israeliani attraverso la barriera tra Gaza e Israele, dove le sirene hanno suonato dopo mesi di silenzio a causa del lancio di due razzi dalla Striscia. In Cisgiordania, le autorità avevano indetto giovedì uno sciopero delle scuole e delle attività pubbliche e chiamato la popolazione palestinese a manifestare contro la decisione del presidente Donald Trump, annunciata martedì e confermata mercoledì, di trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme, riconoscendo la città contesa come capitale di Israele.

  

 

Da Gaza, il leader degli islamisti di Hamas, Ismail Haniyeh, ha chiesto giovedì una nuova “intifada”: “Vogliamo una rivolta continua per fare in modo che Trump e l’occupazione rimpiangano la decisione”, ha detto. L’ondata di violenza degli anni Duemila innescata da Hamas contro Israele ha portato a sanguinosi attentati, a scontri e all’uccisione di centinaia di civili. Da qui giovedì la mobilitazione nelle cittadine israeliane di decine di agenti di polizia, mentre il capo di stato maggiore Gadi Eizenkot ha visitato gli alti gradi dell’esercito. Dal vicino Libano, anche le milizie sciite di Hezbollah, che nel 2006 hanno combattuto una guerra di 34 giorni contro Israele, hanno fatto sapere che, dopo le parole di Trump su Gerusalemme, l’unico modo per “reinstaurare i diritti” sarebbe quello della resistenza armata.

 

E’ in quest’atmosfera di minacce, con una strada palestinese in crescente tensione e lo spettro di nuove violenze, che i leader di tutto il mondo hanno dato per morto, a causa delle dichiarazioni di Trump, il processo di pace. Il processo di pace, dice però al Foglio Anshel Pfeffer, esperto di sicurezza del quotidiano liberal israeliano Haaretz, non esiste da anni. E il suo giornale lo ha ricordato giovedì così: “Trump non ha ucciso il processo di pace, lo ha soltanto dichiarato morto”.

 

E’ necessario avere le prove dell’esistenza di un processo di pace prima di pronunciarlo morto, ci dice Shlomo Brom, che come direttore della divisione di pianificazione strategica dell’esercito israeliano ha partecipato negli anni Novanta ai negoziati di pace con palestinesi, giordani e siriani. “Non c’è però un processo di pace tra israeliani e palestinesi dai tempi del primo ministro Ehud Olmert. Anche se l’ex presidente americano Barack Obama ci ha provato, non ci sono colloqui diretti da allora”, e stiamo parlando di un mandato che si è concluso nel 2009. L’andamento del processo di pace, inoltre, storicamente non è legato all’innescarsi di nuove violenze, ricorda sempre Brom, facendo l’esempio di come il Trattato di pace con l’Egitto nel 1979 sia arrivato dopo una guerra.

 

Nessuna volontà di negoziare

 

Il dibattito sul processo di pace è assente da così tanto tempo nell’opinione pubblica israeliana che sia nelle elezioni del 2015 sia in quelle del 2013 non era priorità di nessun partito, neppure dei laburisti. La sinistra da movimento che ha storicamente incentrato le sue campagne sulla risoluzione del conflitto con i palestinesi è passata a occuparsi principalmente di ineguaglianze economiche. Gli israeliani hanno votato infatti orientati soprattutto da problemi sociali. Certo, nei sondaggi la maggior parte dei cittadini risponde d’essere favorevole alla soluzione a due stati. In pochi, e lo dicono ancora una volta i sondaggi, credono però che si tratti di una condizione realizzabile. “Le due parti non hanno la volontà di negoziare – dice Brom –, e se Trump e il genero Jared Kushner avevano intenzione di riattivare il processo di pace si sono sparati nei piedi: non puoi mediare se hai preso una delle due parti”.

 

Per Eli Lake, osservatore della politica estera americana ed editorialista di Bloomberg, la mossa di Trump è significativa e al contrario potrebbe rimettere in piedi un processo agonizzante: “Sospendere la neutralità americana sulla questione di Gerusalemme indebolisce l’illusione che i leader palestinesi continuano a fornire alla propria popolazione: quella di una Gerusalemme indivisa e palestinese”, dice al Foglio. Questo potrebbe portare la leadership verso il negoziato, in un momento in cui, come ricordava due giorni fa il New York Times, la questione palestinese è stata ormai rimpiazzata da altre priorità nel resto del mondo arabo, e la solidarietà mostrata dai leader regionali in queste ore potrebbe rimanere confinata al regno delle parole.

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