fauna d'arte
"L'immaginazione non si può censurare, è la massima forma di resistenza". Parla Ruth Beraha
"Spesso il mio lavoro assume forma testuale, narrativa, in qualche caso in assenza dell’immagine provo a ricrearne una che sia mutante, mai uguale a se stessa"
Nome: Ruth Beraha
Luogo e data di nascita: Milano, 4/8/1986
Galleria di riferimento e contatti social: Ncontemporary Milano,
Instagram, @ruthberaha, #ruthberaha
L'intervista
L'intervista è realizzata in collaborazione con Anna Setola
In che modo hai iniziato a fare l’artista?
Non ricordo un momento in cui non avessi già questo in testa e un pessimo carattere. I miei raccontano di me sempre assorta e con la matita in mano, a disegnare su qualsiasi superficie mi capitasse a tiro. Qualche anno fa mia madre ha svuotato un vecchio mobile e ha trovato un disegno sul fondo di un cassetto. Era un orsetto stilizzato, avrò avuto forse due anni quando l’ho disegnato. Ho iniziato tardi a farlo per vivere. Fino a trentuno anni ho lavorato in altri ambiti, poi ho capito che non mi sarei mai perdonata se non ci avessi provato e mi sono licenziata. Dal giorno dopo mi sono costruita e mi sto costruendo una carriera, anche grazie a una serie di incontri fortunati.
Spesso fai riferimento al concetto di “iconoclastia”. Che significato assume in relazione alla tua pratica artistica?
L’assenza di immagini mi interessa perché dà spazio all’immaginazione: fino a quando un’immagine non è fissata ha un potenziale infinito. Io lavoro spesso con il potenziale, con il non detto, con l’immaginato. L’iconoclastia mi interessa anche come forma di violenza e forzatura, se pensiamo all’iconoclastia storica e religiosa è più chiaro. C’è un filone dei visual studies che si occupa della violenza delle immagini – e anche di violenza rispetto all’assenza o censura delle immagini, e di iconoclastia come potenziale: laddove – come nei libri rispetto ai film, per capirci – non c’è l’immagine ma esiste un’indicazione per immaginarla, lì potenzialmente si genera tutto. Da un certo punto di vista è come dire che l’immaginazione non si possa censurare: è la massima forma di resistenza. Ma l’iconoclastia ha anche una valenza più intima, per me. Ha a che fare con la voglia di essere vista e la paura di essere guardata.
Com’è organizzata la tua giornata?
Difficilmente un giorno è uguale all’altro. Gli elementi che tengo in equilibrio sono: mia figlia, la relazione con la mia compagna, il lavoro in studio, le produzioni – molte delle quali non vengono finite in studio ma da vari fornitori in giro per l’Italia, quindi si traducono in molti chilometri macinati in auto – le camminate a San Luca e le ore davanti al computer. Cerco di cucinare per tutta la famiglia e di leggere a letto.
Che cos’è per te lo studio d’artista?
Lo spazio della tranquillità, del silenzio e dell’ascolto di podcast e audiolibri. Anche musica, ma solo quando voglio ascoltare una cosa specifica, mai come musica di sottofondo. Considero il mio studio anche il tempo e lo spazio di quando vado a camminare, quasi sempre, anche lì, con qualcuno nelle orecchie. Considero poi il mio studio anche la lettura in generale, quindi immagino qualsiasi letto, divano, poltrona, sdraio, sedile di treno o di aereo, sedia di sala d’aspetto.
Quali sono i tuoi riferimenti visivi e teorici?
Ho una formazione da storica dell’arte e per questo sono molto legata all’immaginario dell’arte antica e rinascimentale, così come i visual studies a cui accennavo prima. Ho studiato da pittrice e poi ho litigato con la pittura - ultimamente ho ripreso a frequentarla ma con molta cautela. Ho amato l’arte concettuale e il suo superamento. C’è molta letteratura, penso a Butler, Asimov, Kafka, Carrère, Morrison, Poe, Le Guin, Dick, Potok, O’Connor, solo per citare qualche autore. Il mio lavoro affonda anche le radici nell’immaginario legato alla cultura popolare, dal cinema allo sport.
C’è una tra le tue opere a cui sei particolarmente legata o che reputi la più eloquente rispetto alle tematiche che indaghi?
A seconda di quando mi fanno questa domanda rispondo sempre con l’ultimo lavoro che ho fatto, in questo caso è Fortune’s always hiding, I’ve looked everywhere. Una serie di uccellini di ceramica dipinta con la testa infilata nel muro, che è in mostra alla nona edizione della Biennale Gherdëina insieme a un altro lavoro intitolato Il cielo è dei violenti (fino al 1 settembre). Sono molto legata al primo lavoro della mia carriera, che ho esposto in Pirelli Hangar Bicocca a inizio 2018, Pensiero stupendo (self-portrait).
Ci descrivi l’uso che fai della dimensione sonora?
Mi ricollego alla risposta sull’iconoclastia, spesso il mio lavoro assume forma testuale, narrativa, in qualche caso in assenza dell’immagine provo a ricrearne una che sia mutante, mai uguale a se stessa, e questo spesso avviene attraverso il testo ma non solo, anche altri suoni hanno un connotato evocativo e un potenziale immaginifico. È come se avessi bisogno di entrambe le dimensioni, quella dell’immagine e quella della sua assenza.
Qual è la funzione dell’arte oggi?
Quella che aveva anche ieri, salvare il mondo senza avere nessuna utilità.
A che cosa stai lavorando?
A un capolavoro.
Le opere
Fortune’s always hiding, I’ve looked everywhere, 2024
Ceramica dipinta
Installation view Biennale Gherdëina
Ph. Tiberio Sorvillo
Us (self-portrait), 2018
Acquario, piranha, terracotta
Installation view Mambo
Ph. Carlo Favero
Visionarie, 2021
Ceramica dipinta
Installation view Ncontemporary
Ph. Ela Bialkowska OKNO studio
L’altra, 2022
Vetro
Ph. Carlo Favero
Run Home (self-portrait), 2018
Vetro soffiato
I’ll tell you the story I know, 2021
Alluminio, specchio-spia, cuffie, ecopelle, traccia audio, lettore mp3
Installation view Macro
Ph. Simon d’Exéa
R.U.? (self-portrait), 2022
Acciaio, speakers, traccia audio
Installation view GAMeC
Ph. Antonio Maniscalco
A me gli occhi, 2021
Scritta al neon
Viktor (dalla serie Goodfellas), 2024
Inchiostro su carta
Installation view Fondazione Nicola Trussardi
Ph. Marco De Scalzi
Non sarai mai solo, 2019
Performance
Installation view Museo della città di Livorno
Ph. Ela Bialkowska OKNO studio