Pietro Roccasalva, From JMM, 2022. Foto Agostino Osio. 

Il Foglio arte

Le mostre da non perdere per cominciare il nuovo anno

Undici tra i nostri migliori curatori condividono i loro sguardi all’insegna di un auspicato ottimismo

Fine dell’anno, tempo di bilanci di ciò che è stato, oppure di previsioni di quello che vorremmo che sarà. Rassicurarci cercando di ordinare i ricordi, o avventurarsi nell’imponderabile delle ipotesi del nuovo?  Ma si sa, le novità si ottengono arrangiando in modo inedito le cose del passato, non ci resta quindi che celebrare una ritrovata stagione di mostre, impensabile se portiamo i nostri ricordi a dicembre dello scorso anno. Il Foglio Arte presenta undici recensioni di mostre attualmente presenti in Italia, oppure di artisti italiani all’estero. Undici tra i migliori curatori italiani offrono i loro sguardi lontani dalle convenzioni artistiche del tempo che presentano un linguaggio personale, volto a trasmettere l’essenza dell’arte del nostro tempo. Ognuno dei curatori invitati ha scelto la mostra da raccontare ai lettori per questo numero che vuole essere un po’ celebrativo di una ritrovata convivialità, ottimista quanto basta per il decorso prossimo e un filo utilitaristico per chi ha in programma di spostarsi attraverso penisola nei prossimi giorni. Auguri.
Francesco Stocchi

 

Riccardo Baruzzi. Il margine del cielo e della terra

Galleria d’Arte Contemporanea Osvaldo Licini, Ascoli Piceno, 4 dicembre 2022 - 5 marzo 2023

La mostra personale Il margine del cielo e della terra di Riccardo Baruzzi in corso alla Galleria Contemporanea di Ascoli Piceno è il frutto della vittoria della seconda edizione del Premio Licini, dedicato alla pittura italiana, che porta il nome dell’artista piceno Osvaldo Licini (1894-1958), le cui tele e disegni si possono ammirare al di là delle sale in cui sono allestite, fino a marzo 2023, le opere di Baruzzi. 
Ero tra i professionisti dell’arte invitati a nominare un artista per questa edizione del Premio, e sia la mia scelta che quella degli organizzatori è poi ricaduta su Baruzzi, nonostante esiti a definirsi “pittore” preferendo invece la dicitura più astratta, e forse meno ingombrante, di “disegnatore di quadri”. La sua mostra gioca con diversi materiali e registri artistici, ci sono tele, ma anche fotografie, sculture e installazioni che rivelano un’attenzione spaziale e disvelano alcune delle sue ispirazioni e metodologie di lavoro.

Nella prima sala, sulla parete di fronte a un ritratto di donna di piccolo formato eseguito dal giovane Licini e selezionato da Baruzzi in apertura di mostra, si trovano sette tele ravvicinate, ciascuna di un colore diverso selezionato tra tessuti in cotone per tendaggi, e usato come base per la sua azione pittorica. Baruzzi interviene poi con dello spray e colori a olio in congiunzione alla tecnica del monotipo, una matrice impressionata in negativo sulla tela. La serie dal titolo Cetrioli e noci su olmo tramutato ci porta in una campagna scoppiettante di mutazioni: l’artista infatti mescola frutti, ortaggi e piante, che riportate e trasformate sulla tela, testimoniano le modifiche messe in atto dalla crisi ambientale i cui segnali ci circondano. Nella stanza successive ci sono due coppie di fotografie a colori che ritraggono l’artista in versione bricoleur in prossimità del Mar Adriatico e della Romagna che gli ha dato i natali. Analizzando la scena creata da Baruzzi, si vedono in primo piano diverse tele sia su cavalletto che a terra, presentate al pubblico come in una esposizione amatoriale. Oltre ai soggetti pittorici, si notano cartelli come quelli che si portano in manifestazione, le scritte dicono I Can’t hear you (Non ti sento) o ancora I feel you (Ti sento). Baruzzi indossa abiti da campagna in quella che sembra una parodia dell’artista, ponendosi in comunicazione diretta con il pubblico che osserva. Alle spalle di questa scena, si vedono i trabucchi, costruzioni per la pesca tipiche della riviera adriatica, e ancora più in là, gru ed edifici industriali ci fanno riconsiderare la nostra momentanea fuga nell’arte e nella natura. 

Le sculture in sala sono due spaventapasseri, uno sdraiato a terra e l’altro seduto, hanno un corpo stilizzato ottenuto con la fusione in bronzo, una testa di gallo di terracotta realizzata dall’artista in una residenza in Salento, e dei nastri colorati, a mo’ di foulard, realizzati tramite monotipo. L’ultima sala è il regno dei “bilancioni”, strutture in tessuto a strisce colorate sostenuti da una gabbia metallica che sorregge in maniera morbida i quattro lembi; la pancia del bilancione contiene, come se fossero dei pesci, i disegni di Baruzzi sparsi in maniera apparentemente casuale, raffiguranti creature da bestiario medievale, lasciati allo sguardo e alla decodificazione dello spettatore. Infine un ritratto ad olio dipinto da Baruzzi direttamente su un pannello di mdf, Elena after Elena del 2022, che cita il quadro di Licini a inizio mostra. La contemplazione dell’opera viene regolata con una lampada rossa a incandescenza che diparte dal muro sopra la tela con un braccio metallico, la luce indica la misura ideale di distanza per guardare l’opera. La lampadina rossa si accende, l’artista si trasforma in contadino, spaventapasseri e pescatore di segni. 

Caterina Riva, direttrice – MACTE, Termoli


Monica Bonvicini. I do You

Neue Nationalgalerie, Berlino, 25 Novembre 2022 - 30 aprile 2023

All’uscita dalla mostra, viene in mente come un déjà-vu il delizioso incipit de L’incoscio ottico: “E che dire del piccolo John Ruskin, con i suoi riccioli biondi e la sua fusciacca blu e le scarpe coordinate, soprattutto con quel silenzio obbediente e il suo sguardo fisso?”. Privato di giocattoli e carezze, postula Rosalind Krauss, il fanciullo – futuro critico esimio – è solo catturato della luce riflessa da un mazzo di chiavi, è affascinato dalle assi di radica di un pavimento, conta i mattoni della casa di fronte per ammazzare il tempo. La vita, in questo stato di costrizione disciplinata, è un gruppo di forme conoscibili, aliene. Il bimbo sviluppa quella che la critica statunitense chiamerà “vocazione modernista dello sguardo”: ma cosa succede se questa visione solida – che si pone come incontrovertibile, astraente, organizzante – che forgerà, poi, la scrittura di Ruskin, inciampa nell’opacità di elementi che ne turbano la serenità olimpica? Cosa accade se potenze sotterranee e invisibili – e Freud corre in aiuto nell’individuarle – mettono in forse l’implacabile senso di “oggettività”? La malizia infantilizzante di Krauss è assente nella conversazione che l’artista Monica Bonvicini intavola con l’ultima opera realizzata dal grande architetto modernista Mies van der Rohe che ospita la mostra. E’ comune però la de-monumentalizzazione, la messa a nudo degli impliciti che oggi riesce meno semplice individuare, addestrati come siamo ad ammirare lo splendore delle linee, l’esattezza moralizzante della Neue Nationalgalerie, la promessa di futuro e di razionalità. Visitando I do You incontriamo un primo intralcio nel gran pannello riflettente – l’omonimo lavoro, I do You (2022) – appoggiato proprio di fronte all’ingresso principale – possiamo utilizzare la parola “facciata”? Ignominia! Si tratta forse di una pubblicità o di un’indicazione informativa? Neanche per scherzo: lo statuto dell’architettura e del lavoro di Bonvicini sono subito in discussione. Una volta entrato, lo spettatore si trova di fronte a un enorme specchio che lo confonde anche per un solo istante (forse troppo consapevole di sé, preoccupato per come gli stanno i capelli e l’abito che ha scelto per il vernissage): lo spazio si moltiplica. Van der Rohe aveva immaginato il primo piano della costruzione – quello più noto, interamente visibile dall’esterno – come una corte trasparente per accogliere pochi se non un solo grande lavoro. E questo accade anche in questa occasione, ma non come immaginato dal progettista. Bonvicini non presenta un lavoro, ma un dedalo: una concrezione di lavori realizzati in diversi momenti che si sedimentano in una piattaforma. Modula i movimenti e gli sguardi dei visitatori: l’idea – fino a cinquant’anni fa, affatto discutibile – di uno spazio architettonico pensato per magnificare la contemplazione dell’opera d’arte è tradita. Qui si circumnaviga il parallelepipedo specchiante, si individuano i lavori che lo compongono, si può addirittura salire sulla piattaforma e scoprire Breach of Carpet (2020-2022), un tappeto che lo ricopre interamente, stampato con foto che Bonvicini ha realizzato nel corso degli ultimi anni immortalando pantaloni poggiati sul pavimento, come tolti di fretta. Ci si può anche arrampicare sulle Chainswing Belts (2022), altalene in acciaio galvanizzato pensate per essere usate da due persone per volta, o lasciarsi accecare da Light Me Black (2009), scultura sospesa composta da tubi di neon di due metri che ci attira, come falene, per poi respingerci quando la luce, subdolamente, ci spinge fuori dallo stato di comfort. La relazione con la luce non è elemento secondario nell’esibizione: i muri del padiglione, quasi interamente in vetro, avrebbero dovuto garantire condizioni di visione ideali alle opere esposte, oltre che una relazione quasi osmotica con la città di Berlino sebbene, negli anni, abbia posto diversi problemi agli allestimenti. Bonvicini gioca con questo paradosso della trasparenza creando un labirinto specchiante di luci artificiali e materiali riflettenti. Gioca anche con l’idea di mid-career show: i titoli di tutti i suoi lavori sono elencati in un sound piece diffuso all’esterno dell’edificio. Bonvicini non è una trickster, collabora con gli impliciti, i non detti, i “problemi”, le ideologie mimetizzate tra gli spazi. Chissà se avrebbe regalato un giocattolo ai piccoli Ruskin e van der Rohe? 

Francesco Tenaglia, direttore – Sgomento, Zurigo

 

Dora Budor. Incontinent

Gamec, Bergamo, 14 ottobre 2022 - 8 gennaio 2023


Dietro ciascun elemento utilizzato da Dora Budor si cela una storia, anche se non sempre si svela immediatamente. La chiave per accedere al mondo dell’artista risiede nel suo interesse per oggetti che hanno una memoria, per materiali e storie esistenti, che vengono selezionati e rimessi in un nuovo ciclo vitale. Con le sue opere, e di conseguenza anche le sue mostre, Budor crea infatti un sistema interdipendente, in cui confluiscono sia eventi passati sia in tempo reale, rimandi al contesto in cui ci si trova così come ad altri luoghi. L’interesse per il cinema e la fiction, unito alla formazione in architettura, sono elementi essenziali della sua pratica e sfociano nella messa in scena di situazioni inaspettate, in cui anche l’edificio e la sua storia diventano centrali per il progetto espositivo, ma sempre con un approccio per il quale l’architettura è concepita come qualcosa di vivo e in trasformazione, mai statico. Tutto questo prende forma e accade nella mostra Incontinent alla Gamec di Bergamo dove la sensazione è letteralmente quella di trovarsi in un ambiente che non si contiene tra le pareti delle due sale, e in senso lato dell’edificio, che ospita l’esposizione. L’installazione che accoglie il visitatore è costituita da due strutture autoportanti a forma di L che ripartiscono la grande stanza rettangolare in tre ambienti più piccoli, formando uno stretto corridoio su un lato. L’aspetto materico di queste pareti nello spazio è piuttosto ambiguo: sul lato esterno la superficie vira tra il giallo e l’ocra e ricorda una strana cristallizzazione di coralli e altri materiali porosi, mentre il lato interno risulta vagamente più familiare, una versione sui generis di cartapesta sui toni del grigio. Il foglio di sala ne svela i dettagli: la posizione delle pareti a formare delle piccole celle affacciate su un corridoio evoca l’antica funzione dell’edificio oggi sede della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, un monastero quattrocentesco, mentre la loro fattura e composizione si collega alla storia di un altro stabile. A Bergamo le pareti sono state riassemblate e riproposte da Dora Budor in un nuovo assetto, ma provengono da una mostra precedente alla Kunsthaus Bregenz. 

Questo museo affacciato sul lago di Costanza ha sede in un’architettura minimalista e austera in cemento e vetro disegnata da Peter Zumthor. L’installazione di pareti di Budor, intitolata Kollektorgang (2001), ricrea infatti nella forma e nelle dimensioni il sistema sotterraneo, altrimenti invisibile ai visitatori, dei muri fondanti dell’edificio di Zumthor che servono sia come elemento strutturale sia per il controllo delle sedimentazioni che provengono dal lago e dal terreno fangoso su cui poggia il museo. Per la finitura della scultura, l’artista ha utilizzato sul lato frontale del latex da conservazione, realizzando un vero e proprio calco sui muri originali e riportando così in superficie tutto il materiale sedimentato e incrostato negli anni, mentre la parte posteriore è finita con una mistura di acqua, cemento e documenti tritati provenienti da vari uffici amministrativi. A Bergamo, il senso di immersione ed emersione che effettivamente si prova davanti a queste pareti viene intensificato sia dalle proporzioni della stanza che ha soffitti altissimi e a cui si accede da una piccola porta angolare, sia dall’applicazione di un velo di vernice semitrasparente lungo tutto il perimetro dell’ambiente, creando una fascia della stessa altezza delle pareti di Kollektorgang, come se ci trovassimo sul fondale di una vasca. La rappresentazione di tempi ed elementi solitamente non visibili si amplifica con l’installazione Termites (2022) in cui Budor utilizza il sistema di aerazione della Gamec come dispositivo sonoro. All’interno dei condotti dell’aria l’artista ha posizionato alcuni sex toys che vibrando generano un inaspettato e piacevole sottofondo acustico a metà tra un suono metallico, il ronzio di un macchinario e il tintinnio di un sonaglio. L’aspetto della casualità e l’idea di un’opera aperta e fluida, la cui esecuzione trapassa il controllo dell’artista, chiude come in una perfetta triade la selezione di opere per la mostra, con i frottage dalla serie Love Stream (2023), esposti nella piccola sala attigua. Realizzate con una versione personale della tecnica già cara ai Surrealisti, ovvero sfregando della carta vetrata su pastiglie polverizzate di un antidepressivo prescritto a Budor, ciascuna delle sette immagini di Love Stream è un disegno automatico e del tutto imprevisto, tra l’onirico e l’astratto, che nella loro enigmatica bellezza ritraggono un momento intimo e nascosto. Di questo sistema complesso e tentacolare di rimandi, intrecci e storie non immediatamente visibili non può non fare parte la misteriosa figura che si cela dietro il nome di Morin Sinclaire, che firma il testo di sala che accompagna la mostra. Pseudonimo, alter ego, o omaggio alla partigiana francese Denise Marie-Roberte Morin-Sinclaire, moglie di Pierre Klossowski e protagonista di numerosi suoi testi e opere, chi sia, non ci è dato sapere. Evidentemente non sempre e non tutte le storie di Dora Budor devono essere svelate. 

Roberta Tenconi, curatrice – Pirelli HangarBicocca, Milano

 

Paul Etienne Lincoln. The world and its Inhabitants

Guido Costa Projects, Torino, 5 novembre 2022 – 10 febbraio 2023


Un nuovo abitante del mondo è nato qualche settimana fa alla galleria torinese di Guido Costa per opera dell’artista Paul Etienne Lincoln. Grazie a una performance inscenata sullo sfondo temporale immaginario della notte di capodanno, Lincoln, come un mago scultore dotato di bacchetta elettrica, ha animato un altro personaggio del suo straordinario progetto The world and its Inhabitants. In questa mostra, visitabile a Torino fino a febbraio, un gruppo di incredibili sculture meccaniche accoglie il pubblico come statuine giganti di un eccentrico ed eclettico presepe fantascientifico. 
Poco più che sessantenne, nato a Londra, ma residente a New York dalla fine degli anni 70, Paul Etienne Lincoln è una di quelle figure inclassificabili nel panorama artistico contemporaneo, anacronista e visionario al tempo stesso, molto raffinato e vertiginosamente complesso. Meccanico di rara sapienza con una spiccata passione per l’alta orologeria, da più di quarant’anni realizza affascinanti macchine perfette in forma di scultura. Da ricercato bibliofilo e profondo conoscitore delle culture marginali, illustra nei suoi lavori biografie dimenticate, invenzioni e personaggi esemplari in un tripudio di citazioni, accenni e riferimenti occulti: dalla storia della scienza e della tecnologia, alla musica, alla letteratura e al cinema. In lui c’è un po’ di Matthew Barney, ma anche qualcosa di James Lee Byars e Tinguely, ma anche molto delle macchine celibi duchampiane (non a caso è membro del Collegio di Patafisica).

Ho avuto la fortuna di vedere due mostre eccezionali di Paul Etienne Lincoln da Guido Costa, gallerista che lo accompagna da sempre offrendo i suoi lavori a sofisticati collezionisti come un segreto da custodire gelosamente. Nella mostra The Velocity of Thought protagonista era un’automobile monoposto dalle fattezze d’insetto e dal motore di dragster, realizzata quando era ancora studente d’accademia a Londra e filmata sulle rampe elicoidali della Pista del Lingotto. Un altro progetto dell’artista del 2015 intitolato The Glover’s Repository era una grande scultura dedicata all’idea del tradimento (oggi nella collezione del Centro Pecci di Prato). In una teca di gusto vittoriano 24 guanti, ciascuno appartenuto a un personaggio della storia, traditore o tradito, ruotavano su se stessi grazie al movimento trasmesso da una copia in scala del meccanismo del Big Ben di Londra. Anche The world and its Inhabitants, come tutte le mostre di Lincoln, è composta da opere realizzate manualmente pezzo per pezzo nel corso di svariati anni di ricerca e si fonda su un atto performativo in cui l’artista mette in movimento, da vita e assiste l’opera realizzata. In questo caso, tutto avviene durante una cena, appunto nella notte di Capodanno. E’ un rito (o un divertimento da Salon ottocentesco, come lui lo definisce) che ha avuto inizio nel 1981 e che è arrivato fino ad oggi. 

Nel corso del banchetto, vestito da Ringmaster con tanto di stivali e cilindro, l’artista presenta una nuova scultura in forma di automa, come una sorta di ritratto ideale del nuovo abitante della terra. Poi, toccandola con una bacchetta, la anima per qualche istante. Ciò avviene tramite un elaborato meccanismo che, facendo passare l’elettricità attraverso il suo corpo, lo collega come in un circuito ideale alla macchina scultura. Pensare al Golem o al dottor Frankenstein è quasi ovvio. 

Nel tempo sono state realizzate quarantadue sculture, quarantadue strabilianti abitanti di cui a Torino sono in mostra quelli degli ultimi venti anni. Sono piccoli meccanismi delicati, ciascuno con la sua precisa identità, riferita al personaggio a cui sono dedicati: alcuni camminano, altri si illuminano o esplodono, cantano o fischiano. C’è la marchesa Casati, ma anche Chopin e Django Reinhardt, la torre Fredersen di Metropolis, Paracelso, Alexander von Humboldt e Rigby & Peller, fornitori della real casa inglese di reggiseni e corsetti. Scorrendo la lista dei nuovi abitanti del mondo troviamo anche formule matematiche, scimmie albine e precursori della missilistica e sono tutte sculture bellissime, a metà strada tra un gioiello e un automa messo a nudo. 
In mostra, oltre alle sculture raccolte a gruppi in teche, o solitarie sotto delle campane di vetro, ci sono anche tutti i parafernalia usati nel dar loro vita, dalla macchina dispensatrice di elettricità (il Copper Governor, secondo le parole dell’artista), al costume da Ringmaster, alle varie fogge di bacchette, flagelli e scarpe. Quello di Lincoln, artista schivo e solitario, è un caleidoscopio umanoide e umano, una miniera di processi alchemici, depositaria di eruditi misteri, metaforica della “velocità di pensiero” più che di quella velocità di produzione che spesso caratterizza oggi il mondo dell’arte. 
 
Sarah Cosulich, direttrice – Pinacoteca Agnelli, Torino


Irma Boom. Book! Boom!

Biblioteca Apostolica Vaticana, Roma, 18 novembre 2022 – 25 febbraio 2023

Irma Boom è una delle più influenti graphic designers viventi anche se è un termine che lei non ama preferendo quello di “bookmaker”. Ha 62 anni, ha fondato il suo studio nel 1981, è ossessionata dal libro stampato ma soprattutto dalle possibilità e dai limiti che il “fare libri” regala. Metodica, maniacale, puntuale, ricercatrice, con una vena ironica tutta olandese. Determinata al punto di essere riuscita ad esaudire un sogno riservato a pochi: realizzare una mostra dentro la Biblioteca Apostolica Vaticana. Un’idea scaturita nel 2018 durante un soggiorno a Roma di sei mesi all’American Academy quando, su suggerimento di una studiosa americana conosciuta durante la sua residenza, Boom passò tutti i giorni a visitare la Biblioteca Vaticana per approfondire le origini del libro dopo la rivoluzione di Gutenberg e interrogarne il ruolo dall’antichità a oggi.Per la bookmaker olandese, ogni elemento costitutivo del libro ha un peso specifico ed è degno di essere esaminato, esplorato ed esaltato: la dimensione, la copertina, il dorso, la tipologia di carta, le

intestazioni, i paragrafi, i margini. Il suo lavoro è una forma di resistenza contro la “screen generation” a favore del libro come oggetto tattile, visivo, sensoriale. Guardare alla produzione bibliografica della Boom (più di 500 titoli) accostata ai manoscritti e libri antichi all’interno della Biblioteca Vaticana ci fa capire le potenzialità ancora inesplorate di questo linguaggio. Il libro è un toolbox magico eternamente in grado di stupirci aldilà del mero dibattito analogico/digitale, book/e-book.

Il titolo della mostra, Book! Boom! gioca sull’assonanza delle due parole nonostante l’accezione “esplosiva” del cognome è fuorviante poiché in olandese la pronuncia è “bo:m” e significa albero, ricollegandosi in modo naturale al libro. Le quattro lettere con l’esclamazione le ritroviamo esplose, in versione macro, sulla scalinata d’ingresso della biblioteca come fosse una cover (l’intenzione originaria era stamparle sulla facciata cinquecentesca di Domenico Fontana).

L’esposizione restituisce bene lo spirito e il processo dietro la produzione della Boom giustapponendo menabò e prototipi a focus su progetti più significativi come quello su N°5 culture Chanel (un volume bianco dove nulla è stampato bensì impresso tramite coppie di matrici) o Renault=Présent (un tomo da 1,5 kg stampato su carta alluminio che riprende le cromie delle carrozzerie), il calendario annuale floreale di Thomas Demand o il textile brick di Sheila Hicks.Un’occasione unica per visualizzare i processi di pensiero e metodologici della Boom che per ogni progetto produce una miniatura per verificarne l’efficacia; celebre infatti la

sua monografia formato tascabile di quasi 1.000 pagine, un’auto-retrospettiva su carta. Intrigante la scelta da parte dei curatori di far dialogare le opere bibliografiche della Boom con la collezione futurista del sacerdote ed erudito don Giuseppe De Luca così come la decisione di esporre alcuni volumi dentro capsule gonfie d’aria comunemente utilizzate con l’azoto per la disinfestazione e presentarne altri a parete su teche di plexiglas. Imperdibile l’agenda annuale pensata per la Biblioteca Vaticana. Book! Boom! è la conferma che spesso bisogna uscire dai musei per scoprire altri modi di guardare e presentare l’arte.

Luca Lo Pinto, direttore Artistico – MACRO, Roma


Massimo Bartolini. Hagoromo

Centro per l’Arte Luigi Pecci, Prato, 16 settembre 2022 - 30 aprile 2023

Voluta inizialmente da Cristiana Perrella, l’ex direttrice del Pecci, e curata da Luca Cerizza con Elena Magini, Hagoromo è la mostra più vasta dedicata finora al lavoro di Massimo Bartolini, uno degli artisti più importanti emersi in Italia negli ultimi trent’anni. Spazia dai suoi primissimi lavori (Il frutto, 1990) fino a creazioni datate 2022 e realizzate per l’occasione. Chi si aspetta la classica retrospettiva, però, rimarrà spiazzato. Come hanno fatto da una decina d’anni a questa parte altri artisti della sua generazione – Pierre Huyghe e Dominique Gonzalez-Foerster, Maurizio Cattelan e Cesare Pietroiusti – Bartolini ha approfittato dell’occasione di un consuntivo istituzionale per cercare di realizzare qualcosa di nuovo e di inedito: una mostra-installazione, una mostra-opera, di cui le opere preesistenti sono i materiali di partenza. 
Il cuore del progetto, non a caso, è un lavoro creato per l’occasione, che si estende ininterrottamente attraverso ben otto delle dieci sale: un ponteggio di tubi innocenti sospeso al soffitto, che un sofisticato sistema di mantici trasforma in un organo a canne meccanico (In là, 2022). Il monumentale strumento esegue – con sorprendente efficacia – una partitura composta ad hoc da Gavin Bryars, una polifonia solenne e meditativa ognuna delle cui voci corrisponde a una sala. Sui due lati del ponteggio-organo che taglia la mostra in due nel senso della lunghezza, e obbliga a visitarne un solo lato per volta, è allestita una selezione di opere create nell’arco di tre decenni, diversissime fra loro per materiali, tema, dimensioni. Si va dall’impercettibile Shock Absorbent Drop (2011, una goccia di silicone sul muro) fino all’imponente Basement, un calco in bronzo, tanto simile all’originale da ingannare lo spettatore, di una zolla di terra di 4 metri di lato, due esemplari della quale (2011 e 2012) sono collocati ai due estremi del percorso. La specularità della prima e dell’ultima sala è calcolata: la mostra si può visitare partendo dall’una o dall’altra, indifferentemente, per poi rifare il percorso in senso inverso dal lato mancante. La visita diventa così un loop, come sottolinea Cera persa (2017-22), una delle opere più belle: sessanta repliche in bronzo di candeline di compleanno a forma di numero, già in parte sciolte, che scandiscono gli anni di vita dell’artista fino a oggi, disposte a intervalli regolari lungo tutto il perimetro della mostra. Le cifre in bronzo sovrappongono alla cronologia delle opere, frammentaria e discontinua, il fluire costante della vita; la loro disposizione trasforma il tempo lineare in un tempo ciclico, dove la fine si congiunge all’inizio.   

Come è evidente anche da questi pochi cenni, il lavoro di Bartolini è votato alla pluralità. Pluralità in senso linguistico, in primo luogo: la sua opera abbraccia scultura, installazione, disegno, fotografia, video, performance, e si apre a discipline confinanti come letteratura, musica, danza, architettura. E poi pluralità dei soggetti: come altri artisti della sua generazione, Bartolini ha sentito l’esigenza di evadere dal solipsismo dell’artista-demiurgo per andare verso lo spettatore (che nelle sue installazioni diventa attore e protagonista) oppure verso la comunità a cui le opere sono destinate (quasi tutti i progetti pubblici dell’artista, documentati nell’imponente catalogo, sono concepiti come spazi di sosta, contemplazione, incontro fra le persone). Nella pluralità e nella varietà, alcune caratteristiche restano costanti lungo il filo degli anni: il senso della forma sempre vigile, anche nelle opere più concettuali; lo spiazzamento percettivo, che, ha notato Luca Cerizza, sfiora la poetica barocca della “meraviglia” (il ponteggio che si anima e suona, la terra che si rivela bronzo); un lirismo trattenuto ma non per questo meno toccante. In senso ancora più generale, tutto il lavoro di Bartolini, dall’inizio alla fine, coltiva un’idea di arte come attenzione, aderenza alle cose liberata dall’opacità dell’abitudine. Anzi, per citare Cristina Campo, una delle scrittrici più amate dall’artista, attenzione come “forma più legittima, assoluta d’immaginazione”.  

Simone Menegoi, direttore Artistico – Arte Fiera, Bologna


Arthur Jafa. RHAMESJAFACOSEYJAFADRAYTON

OGR, Torino, 4 novembre 2022 - 12 febbraio 2023

Presentata alle OGR di Torino e organizzata – a cura di Claude Adjil, Judith Waldmann e Hans Ulrich Obrist – in collaborazione con le Serpentine Galleries di Londra (da cui è stata generata nel 2017 con il titolo A Series of Utterly Improbable, Yet Extraordinary Renditions), la prima mostra personale in Italia dell’artista statunitense Arthur Jafa richiederebbe  di essere visitata dal vivo. Anzi, la mostra attesta quanto l’esperienza di un’opera d’arte – anche o forse soprattutto all’epoca della sua producibilità e riproducibilità digitale – dovrebbe sempre essere un’esperienza sociale: un’immersione materiale e intellettuale che coinvolge tutti i sensi, che richiede il tempo della nostra attenzione, che si riverbera nello spazio in cui anche altre persone come noi la ascoltano, la osservano, la interpretano. E proprio il pubblico – a partire dalla comunità di persone di cui le opere di Jafa si sono assunte ormai da tre decenni il compito di raccontare, incorporandole, le storie – costituisce uno dei mezzi espressivi più radicali nelle mani di questo artista radicalmente comunitario.
Vincitore nel 2019 del Leone d’oro come miglior artista alla 58° Biennale di Venezia con l’opera The White Album, Jafa indaga, nelle sue installazioni immersive, l’intensa complessità della black culture, a partire da quella musicale, e conferisce una corporeità sensibile e una plasticità critica al racconto di come non sia possibile – nonostante  le molteplici strategie messe in campo nel XX secolo, e ancora oggi, dalla cultura dominante occidentale e (post)coloniale – cancellarne o silenziarne l’importanza poetica e politica: quel mix fra “power, beauty, and alienation” che risulta persino amplificato, appunto, dai tentativi di marginalizzarla e neutralizzarla. Quelle di Jafa non sono, però, opere propriamente antagoniste, quanto empatiche, perché la loro affermazione scaturisce dal loro matter-of-factness, dal dato di fatto costituito dall’empatia con cui condividono l’oggettiva autonomia e autorità del racconto che esse ereditano e rielaborano. Un racconto che anche per questo si basa sulla rigorosa ricerca storica e sulla costruzione effettiva di un archivio personale, che in mostra alle OGR si traduce in un percorso architettonico fluido in cui è presentata una selezione dei Picture Books: immagini raccolte dall’artista a partire dalla metà degli anni ‘80 e che documentano la sua volontà di affrontare, senza tirarsi indietro, l’immaginario disturbante in cui la blacknness veniva documentata e mediata socialmente. Questo percorso è completato da un cartellone di 9x6 metri (More or Less) che richiama la frase “Less is Morbid” presente in una delle immagini dei Picture Books e, elaborando la morbosità del suo riferimento storico, attraversa il detto-teorema del Modernismo novecentesco “Less is More”  abbandonandolo a se stesso, a una storia (non solo) dell’arte consapevolmente parziale e non inclusiva. 

Culmine della mostra alle OGR – intitolata RHAMESJAFACOSEYJAFADRAYTON, dall’unione del cognome dell’artista e di quelli dei chitarristi Arthur Rhames (1957-1989), Pete Cosey (1943-2012) e Ronny Drayton (1953-2020) – è la monumentale proiezione video della durata di 85 minuti AGHDRA (2021). Nell’opera un flusso incontenibile di onde nere – spesse come forme tridimensionali, opulente e ipnotiche, che si amalgamo fra loro sotto un cielo in cui si staglia un tramonto senza fine – sembra riservarsi e travolgere inesorabilmente gli spettatori. La dinamica del flusso visivo è complementare a quella sonora, composta da una serie di canzoni popolari della black music statunitense la cui emissione fa persino vibrare l’immensa navata delle OGR. Questa presenza quasi fisica della musica, insieme al fatto che le immagini del video non siano reali ma generate da un computer, conferiscono all’impalpabilità dell’onda sonora e al fantasma digitale la forza di evocare un discrimine immaginifico, una consistenza ipotetica, uno statuto provvisorio in cui si congiungano una reale denuncia storica e il racconto di una mitologia in formazione. L’esperienza di un meta-verso, forse, ma molto reale, di cui per questo si dovrebbe poter fare esperienza dal vivo, e in prima persona.

Andrea Viliani, direttore – Museo delle Civiltà, Roma

 

Bruce Nauman. Neons Corridors Rooms

Pirelli Hangar Bicocca, Milano, 15 settembre 2022 - 26 febbraio 2023

Lo dico sin dall’inizio: con Bruce Nauman non riesco ad essere obiettivo. Nauman è per me l’artista più influente del secondo 900. Uno che semplicemente è riuscito a creare pressoché solo capolavori e lo ha fatto con tutti i mezzi artistici che ha adoperato e sono stati praticamente tutti, ad eccezione della pittura, anche se su questo si potrebbe dibattere. Pertanto, la mia aspettativa rispetto alla mostra Neons Corridors Rooms, oggi ancora visibile presso Pirelli Hangar Bicocca di Milano, era a dir poco molto alta.

Distribuita sugli oltre 5.000 metri quadrati della cosiddetta navata, la mostra presenta trenta opere realizzate a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta selezionate tra quelle che esplorano la dimensione più spaziale e architettonica della pratica di Nauman. Il fulcro di Neons Corridors Rooms è rappresentato dai corridoi. Realizzate sin dalla fine degli anni Sessanta, si tratta di strutture ambientali pensate per manipolare, registrare e testare l’esperienza e i movimenti dello spettatore all’interno di uno spazio. La loro architettura costringe i visitatori a seguire un percorso sia fisico che emotivo, spingendolo a una maggiore consapevolezza dei limiti e della propria corporeità. La mostra delinea le prime fasi e lo sviluppo di questo corpus di opere, a partire dal primissimo corridoio creato dall’artista, Performance Corridor (1969). L’idea di questo lavoro era nata da una performance registrata nel video Walk with Contrapposto (1968) in cui Nauman cammina avanti e indietro attraverso uno stretto passaggio con movimenti esagerati dell’anca, imitando la posa del contrapposto delle sculture classiche. L’anno successivo, nel 1969, per una mostra al Whitney Museum di New York, l’artista presenta la struttura servita per la realizzazione di questo video come un ambiente incoraggiando i visitatori a usarlo. 

Si tratta di un cambiamento cruciale per l’artista, perché se fino ad allora infatti i video e le performance si erano concentrati sulla sua stessa presenza e figura, molto spesso nello studio, con Performance Corridor Nauman sposta la sua attenzione e la sua ricerca sugli spettatori, e sul rapporto che questi instaurano con lo spazio che li circonda. Tutta la mostra Neons Corridors Rooms rivela come questa pratica sia diventata sempre più radicale. In Green Light Corridor (1970), ad esempio, una luce fluorescente verde inonda lo stretto spazio calpestabile tra le due pareti, mentre in Corridor Installation with Mirror – San Jose Installation (Double Wedge Corridor with Mirror) (1970) Nauman usa uno specchio per disorientare i visitatori mentre lo attraversano.

In altri casi, gli strumenti elettronici e di sorveglianza, come le telecamere a circuito chiuso, sono lo strumento per esplorare le reazioni nel comportamento e nei movimenti delle persone quando scoprono di essere registrate e monitorate, come nel caso di Going Around the Corner Piece with Live and Taped Monitors (1970). 

Intervallano il percorso tra i vari ambienti, sei lavori al neon che esaminano la natura formale e psicologica del linguaggio e il potenziale trasformativo del testo scritto. Da un lato le riflessioni sull’arte e sul ruolo dell’artista risultano essere centrali nei primissimi neon della fine degli anni 60, come The True Artist Helps the World by Revealing Mystic Truths (Window or Wall Sign) (1967) e My Name As Though It Were Written on the Surface of the Moon (1968), dall’altro giochi di parole e indagini sempre più complesse sull’esistenza umana compaiono nelle opere successive: Run from Fear, Fun from Rear (1972), One Hundred Live and Die (1984) o Hanged Man (1985).

Chiude la mostra invece una video installazione MAPPING THE STUDIO II with color shift, flip, flop, & flip/flop (Fat Chance John Cage) (2001). 
Installata nello spazio finale della navata, l’opera si compone di sette proiezioni video in cui Nauman registra l’attività notturna che si svolge nel suo studio. Come suggerisce il titolo stesso, le immagini sono cromaticamente alterate o capovolte, cambiando quasi impercettibilmente, così da provocare nello spettatore un senso di dislocazione spaziale e temporale. 

Nonostante l’enorme differenza di scala tra le opere e il mastodontico spazio di Hangar Bicocca, tolga quella sensazione di spaesamento, costrizione claustrofobica che i corridoi erano soliti creare quando installati in spazi più contenuti, la mostra risulta potente e fortemente impattante sullo spettatore che si sente parte dell’obiettivo stesso dell’opera. Ancora una volta, attraverso una attenta cura dei dettagli la squadra di Hangar Bicocca testimonia una grande capacità nella creazione di un percorso espositivo e narrativo dell’opera dell’artista che viene presentato. Poi sta all’artista e soprattutto alle sue opere, come succede per quelle di Nauman, riuscire a travalicare il tempo e lo spazio intesi tanto in senso astratto quanto reale e terreno.

Vincenzo De Bellis, direttore  – Art Basel (Fairs and Exhibition Platforms), Basilea

 

Massimo Grimaldi. Tomorrow’s Iridescence

Zero…, Milano, 1 dicembre 2022 - 4 febbraio 2023

La galleria Zero… di Milano presenta una nuova mostra di Massimo Grimaldi (Taranto, 1974). Tomorrow’s Iridescence (L’iridescenza del domani) nasce dall’interesse di Grimaldi nell’indagare il rapporto tra l’essere umano contemporaneo e la tecnologia, in particolare quella legata alla produzione e alla manipolazione di immagini. L’iridiscenza, un fenomeno ottico di riflessione dei colori dell’arcobaleno legato ad alcune sostanze chimiche, evoca la possibilità di una visione in trasformazione, reattiva al contesto circostante, così come alla possibilità di intravedere nell’iridescenza un’anticipazione di come le macchine possano attraverso l’intelligenza artificiale diventare capaci di “immaginazione creativa”. L’intera mostra resta sospesa in una posizione di non giudizio di fronte a queste trasformazioni, a un possibile take-over tecnologico testando al contrario la sua messa in atto. L’artista sembra ipotizzare la nascita di una nuova capacità creativa che manifesta una freddezza formale solo apparente davanti a immagini surreali di corpi e volti in trasformazione perenne.

Nelle parole di Massimo Grimaldi: “Ho immaginato Tomorrow’s Iridescence come la nostalgia di un futuro possibile, di una speranza appunto iridescente. Volevo che la mostra comunicasse una temporalità sognante: attraverso le foto di Flores, isola delle Azzorre nel mezzo dell’Atlantico; di Ifakara, una città della Tanzania rurale; e di una Venezia deserta e sospesa durante le restrizioni pandemiche. E soprattutto attraverso la videoproiezione di umanoidi, o alienoidi, la cui composizione formale deriva dall’interazione dalla mia attitudine (digitalmente) pittorica con app e tool di intelligenza artificiale, in una sorta di preludio ad un futuro in cui l’estetica umana potrebbe coesistere, ibridandosi, con quella delle macchine”.

La mostra inizia con due grandi installazioni video composte da foto in movimento presentate su delle strutture che evocano degli iPad giganti in cui le immagini si susseguono in un loop che ha qualcosa dello screen saver ma molto della memoria delegata alle foto che salviamo sulle nostre device come traccia temporale dei nostri spostamenti e dei nostri incontri. La precisione formale delle immagini ma l’assenza di un filo narrativo nei loop le trasforma in una sorta di autoritratto per interposta persona dell’artista che le ha scattate e scelte. In entrambi i casi la presenza umana è sporadica e il passare del tempo sembra sospeso.
Scendendo al piano interrato, immerso nel buio, sembra di entrare in un’altra dimensione spazio temporale in qualche modo futuribile in cui gli esseri umani si sono trasformati in figure a metà tra alieni e fantasmi madreperlati e sembrano vivere in un paesaggio tropicale post-atomico. Iridescent Island il lavoro centrale viene presentato su due grandi schermi, come sospesi nel nero, formato iPad su cui scorre un loop di 11 minuti in cui le figure create da programmi per creare e dipingere “digitalmente” ci ipnotizzano in uno spazio silenzioso e iridescente in cui la mostruosità delle figure diventa seducente e suscita empatia. Iridescent Island presenta una sospensione temporale in cui le figure solitarie vivono un continuo presente, in cui sembra essere evocata l’esistenza di un’umanità in via d’estinzione o forse già estinta. Nel attivare le intelligenze digitali a creare il lavoro l’artista al contempo attivatore e spettatore primo del lavoro evoca formalmente i grandi capolavori della storia dell’arte, che suscitano un velato senso di déjà-vu. Infine i due piccoli iPad alle pareti opposte si fronteggiano, uno presenta Tomorrow’s Kiss, l’interpretazione digitale e non umana della rappresentazione del bacio tema centrale alla storia dell’arte (Klimt e Hayez per citarne due), evocando al contempo la cultura dei selfie e dello stereotipo della felicità e dell’amore che ci viene riproposto continuamente sui social. Questi lavori nascono dalla manipolazione delle immagini portate avanti attraverso app in cui il linguaggio del ritratto si trasforma per rappresentare questi avatar post umani delegando all’AI la funzione creativa. Chiude la mostra Figurine in cui l’artista presenta dei piccoli mostri allegri e colorati che sembrano fuoriuscire dallo schermo che si sono in qualche modo auto-generati dalle gif di Twitter che in un flusso continuo e inarrestabile di creatività sembrano aver preso il sopravvento sulle immagini originali.

Ilaria Bonacossa, direttrice – Museo Nazionale dell’Arte Digitale, Milano

 

Nico Vascellari. Tre, Quattro Galline

Fondazione Pino Pascali, Polignano a Mare, 9 dicembre 2022 - 9 aprile 2023

Entrando nella Fondazione Pino Pascali si viene accolti dalla sagoma di una pecora a parete, un delicato bassorilievo bianco, più o meno in scala uno a uno. A tratti si percepiscono dei suoni, come di un’aia, di animali. L’impressione è che provengano dall’esterno. D’istinto ci si muove a destra, verso l’archivio di Pino Pascali. Si lasciano alle spalle una vetrina a mensole con una cinepresa 16mm e una bizzarra maschera S/M in tessuto, e si attraversa un allestimento di una serie di folgoranti foto bianco e nero scattate da Pascali a Napoli, soprattutto ritratti in sfondi urbani e dettagli della città. Sulla parete frontale un serpente in legno parzialmente avviluppato in un pneumatico da moto si morde la coda, disegnando un cerchio perfetto e suggerendo un intreccio fra morte e vita. Impossibile non pensare alla fine prematura di Pascali, in un incidente in motocicletta. E’ Uroburo (2022) di Nico Vascellari, il secondo animale in mostra. Nella stanza successiva, a terra, Cinque bachi da setola e un bozzolo (quest’ultimo sollevato, in un angolo, 1968) di Pino Pascali, ulteriori due pecore e, sulla parete opposta, due collage incorniciati: una miriade di animaletti ritagliati da confezioni alimentari disparate si stagliano su sfondo nero. Nei due collage Lidl, 14.01.2021, Roma (2021) e in Carrefour, 05.04.2021, Roma (2022),  gli animali posano, scrutano, danzano, come in dialogo silenzioso con le due pecore in tela centinata – la stessa tecnica delle “finte sculture” di Pascali – e con i bachi. La stanza è trasformata in un ambiente silenzioso in cui tutto è bilanciato: forme, corpi, pesi e colori sono in equilibrio, come nel diorama di un bizzarro Museo di Storia Naturale. A ben guardare, le due pecore hanno le gambe posteriori levate, come scalciando, o in fuga dalla stanza. Out of Step (2022), la pecora fuori tempo, è, per qualcuno, un ulteriore déjà vu: la sagoma è la stessa della pecora nera sulla copertina del disco omonimo (1983) dei Minor Threat, band storica del punk-hardcore, un monumento generazionale alle voci fuori dal gruppo, agli outsider. Le pecore corrono idealmente verso l’ultimo spazio, il più grande. E’ apparentemente vuoto, a parte una scatola in cartone a terra ed una linea orizzontale ininterrotta a parete di dipinti neri incorniciati. Alcuni sono dorati e, su tutti, in posizioni sempre diverse, sono disposti due paia di occhi, tipici da disegno animato. Unknown Eyes (2022) è una serie di 88 collage su scatole di cereali verniciate. Ci si sentirebbe piuttosto circondati ed osservati, se non fosse che la scatola a terra inaspettatamente si muove: movimenti irregolari, pause, sobbalzi, spostamenti laterali improvvisi, come se contenesse un essere inquieto. Ed è da dove provengono i suoni che abitano la stanza e riecheggiano in tutto l’edificio; sono stridori, versi, graffi, colpi, rumori di pollaio, di galline che tubano, chiocciano e sbattono le ali. Tre, quattro galline (2022) – l’opera che da il titolo alla mostra – da vita ad un intero nuovo ambiente irrequieto completamente rovesciato rispetto al precedente: si è attratti, respinti, incuriositi, spaventati, intrigati, inquietati. 

La mostra prosegue presso Exchiesetta, nel centro di Polignano, dove, installato nell’abside dell’unica navata, si trova il neon W.F.Y (2022). Forse una ragnatela, un bersaglio tremolante o un simbolo misterioso in parte blu ed in parte arancione, la cui combinazione bagna l’intero spazio in una luce violacea. W.F.Y gioca al meglio la parte di tutte le più rilevanti opere neon della storia dell’arte recente: evoca, anche senza dire nulla con una scritta. Ma, soprattutto, trasforma l’interno in esterno e viceversa, rovesciando lo spazio e generando ambiente performativo, come accade presso la Fondazione.

Tre, quattro galline è una mostra ammirevolmente misurata, specie nell’impeccabile conversazione con Pino Pascali. Come sempre nel proprio lavoro, Nico Vascellari affronta lo spazio ambiziosamente, impugnandolo e trasformandolo. Non c’è centro, ma neanche bordi. Non si scivola lungo le pareti tracciando i perimetri delle stanze, ma ci si trova all’interno di campi di forze e di energie, immersi in eventi che oscillano fra tempi e ritmi diversi, ora serrati e imprevedibili, ora distesi e quieti. Temi e soggetti aleggiano in sospensione, facendosi eco: fra l’allevamento intensivo di animali ed il senso irreversibile di estinzione, fra interpretazione brillante di materiali e processi delle neoavanguardie e disincanto verso la cultura dominante, fra logiche del gruppo ed isolamento solitario, fra dolcezza e ansia. 
Nico Vascellari pensa e crea fuori tempo e fuori dal coro. Non si adatta mai alle scatole. Non tanto perché ne è fuori, ma perché in fondo, le fa.

Andrea Lissoni, direttore Artistico – Haus der Kunst, Monaco

 

Pietro Roccasalva. Chi è che ride

Collezione Olgiati, Lugano, 18 settembre - 18 dicembre 2022

Si tende spesso oggi ad abusare del concetto di “interrogazione” quando si scrive d’arte contemporanea, e io stesso devo confessare di non essere estraneo a questa consuetudine. A leggere i comunicati stampa e i testi che accompagnano le mostre, sembra che gli artisti e le loro opere passino la maggior parte del tempo a interrogare gli spettatori su un tema piuttosto che su un altro, e che l’arte sia divenuta un’affollata sequenza di indagini più o meno analitiche. Nel caso della pittura di Pietro Roccasalva, però, è quanto mai appropriato parlare di interrogativi, perché sono molte le domande che l’artista apparecchia per lo spettatore con la generosità visiva di un banchetto barocco. Va dato merito alla Collezione Giancarlo e Danna Olgiati di Lugano di aver voluto dedicare un’ampia mostra personale con circa cinquanta opere a un’artista come Roccasalva che, nato a Modica nel 1970, nell’arco degli ultimi vent’anni si è imposto sulla scena artistica internazionale non soltanto come una delle voci più lucidamente personali ma anche più provocatorie, se possiamo oggi considerare una provocazione sfidare le nozioni acquisite su cosa sia la contemporaneità e cosa invece l’attualità, sul senso dell’avanguardia e su quello della tradizione, su cosa vediamo e a cosa crediamo. Chi è che ride è il titolo colto, enigmatico e paradossale della mostra, come pure colta, enigmatica e paradossale è l’arte di Roccasalva: una citazione dalla prima edizione italiana de Il Bafometto di Pierre Klossowski che, per anni, ha accompagnato l’artista come un ritornello ossessivo, una di quelle cose che più ripeti e meno capisci, e che meno capisci e più ami. 

Del lavoro di un artista come Pietro Roccasalva – che riesce a parlare di pittura anche quando tocca altri media – la mostra presenta una panoramica ampia e articolata, offrendo un’occasione di analisi retrospettiva di cui sarebbe bello e necessario si occupasse presto anche un’istituzione pubblica italiana: dai grandi quadri acrilici fino alle installazioni al neon, dai piccoli, preziosissimi carboncini fino alle sculture e agli olii misteriosi come sciarade. E se in alcune opere il virtuosismo pittorico non conosce timidezza e si ferma a un passo dall’iperrealismo fotografico (potrebbe, ma consapevolmente non fa il salto), in altre opere le cose e le figure sembrano colte in quel momento che precede di un attimo la piena dissoluzione nell’astrazione. In questo, Pietro Roccasalva si rivela un artista profondamente contemporaneo nonostante le sue immagini sembrino provenire da un tempo imprecisato, che non conosce cronologia: cosa definisce meglio la nostra epoca, infatti, se non l’inverosimile coesistenza di immagini onnipresenti e iper-definite, tattili come epidermidi e di una realtà che si sfalda sotto i nostri occhi? 

Chi è che ride è una mostra pensata e installata secondo una precisa drammaturgia, all’interno della quale compaiono e ricompaiono motivi e iconografie che l’artista nutre e sviluppa da anni, quasi fossero personaggi la cui definizione avviene nel tempo: una misteriosa scena nuziale che abita le rovine di un viaggio in mongolfiera, un cameriere ieratico e una cattedrale che gira su se stessa, figure femminili assorte e rosette di pane assertive come il più lugubre dei memento mori. Guardando al collage non come a una tecnica ma come a una modalità della percezione che governa il nostro presente e il nostro sapere, Roccasalva mette insieme una molteplicità di riferimenti che è vivace e paradossale almeno quanto la sua immaginazione: le nature morte musicali di Evaristo Baschenis e Photoshop, il cinema di Pier Paolo Pasolini e le icone bizantine, il Futurismo e James Joyce. Per quanto monumentale ed eroica nella perizia tecnica che l’attraversa, l’arte di Pietro Roccasalva è un’arte dell’impermanenza: le immagini paiono disintegrarsi e ricomporsi continuamente, insieme alla mutevolezza dei significati che le hanno accompagnate nel corso dei secoli e che tuttora le fanno vibrare. Per quanto magniloquente, la sua è una pittura dello scetticismo, che guarda all’esistenza umana, pirandellianamente, come a una messa in scena instabile, possibile, interiore ed eclatante.

Alessandro Rabottini, direttore Artistico – Fondazione In Between Art Film

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