Adrian Piper, Everything # 21, (2010-13), © Archivio Storico della Biennale di Venezia – ASAC, foto Andrea Avezzù

Ripensare ad Adrian Piper nei giorni della rabbia nera

Barbara Casavecchia

“Tutto scomparirà” era scritto e ripetuto cento volte nell’opera che le valse il Leone d’oro alla Biennale del 2015. Ma c’era anche un segno d’ottimismo

Everything Will Be Taken Away. Tutto sarà portato via, seconda la traduzione più letterale. Ma anche: Tutto scomparirà. Questa frase, scritta a mano col gesso in bella calligrafia e ripetuta cento volte su quattro lavagne incorniciate, componeva l’opera Everything #21 (2010-13) di Adrian Piper alla Biennale di Venezia del 2015. Lo stesso anno in cui quella Biennale, intitolata “All The World’s Futures” (Tutti i futuri del mondo) e curata da Okwui Enwezor (scomparso a sua volta nel 2019), decideva di assegnare proprio a Piper il Leone d’oro. Ve lo ricordate? No? Everything Will Be Taken Away è già una risposta, perché ci parla della labilità della memoria e della cancellazione di tutti i nostri capitali, materiali (corpi, cose, case, lavori, denari) o immateriali (affetti, ricordi, certezze, carriere, saperi), nel corso del tempo. E’ un esercizio spirituale. Ci ho ripensato spesso, durante la clausura da pandemia, alle prese con il dolore per la perdita di una persona amata che non rivedrò più e con le ansie concentriche per l’incertezza dei nostri futuri. Ci ho ripensato anche nell’arco delle ultime settimane, quando le ondate di protesta sollevate dal movimento Black Lives Matter hanno reso ineludibile la differenza tra chi ha il privilegio di esercitare tutti i propri diritti e chi se li vede sistematicamente negare, come se fosse invisibile o cancellabile all’infinito dal racconto della realtà. E quindi lotta per ricalibrare la distribuzione delle privazioni. E delle cecità.

 

Adrian Piper è una (al femminile) artista concettuale nata a New York nel 1948, che vive a Berlino dal 2005. Impossibile etichettarla: PhD a Harvard in filosofia analitica, studiosa di Kant e della sua Critica della ragion pura, corregge causticamente chiunque ci provi, compresa Wikipedia. Sul sito dell’artista (www.adrianpiper.com) è riportata la versione da lei rivista e corretta del suo profilo, che nel frattempo i redattori dell’enciclopedia più famosa del pianeta non hanno mai smesso di emendare in base alle proprie linee guida, ignorando le sue obiezioni. Le discrepanze sono significative e rivelano quanto sia complicato pretendere che il linguaggio mainstream eviti stereotipi e banalizzazioni, come, per esempio, l’espressione “di colore”. Nel 2012, Piper ha provocatoriamente dato le dimissioni “dall’essere nera”. E non certo per scarsa militanza nei confronti di razzismo e xenofobia: molti dei suoi articoli, saggi, volumi e opere sono dedicati a “educare il pubblico sulla pervasività del meticciato e la finzione del concetto di ‘razza’, a partire dalla prima tesina sulla genetica scritta per un corso di biologia al liceo, nel 1962”, come scrive nella propria biografia. Precisando di essere “1/32 Malgascia (Madagascar), 1/32 Africana di origine sconosciuta, 1/16 Igbo (Nigeria), 1/8 Indiana orientale (Chittagong, India [ora Bangladesh]), oltre ad avere antenati prevalentemente britannici e germanici” – tra i quali ama ricordare il Reverendo John Rogers, primo martire protestante della rivoluzione anglicana, arso su una pira nel lontano 1555 – Piper si rifiuta di sottostare ai processi di razzializzazione e alla follia di far coincidere l’identità di una persona con la sua pigmentazione, il suo genere o la sua classe.

 

Lo fa con una determinazione ostinata, che mette a nudo molti nervi scoperti della società (americana, ma certo non solo) rispetto a opposizioni presuntamente binarie come bianco/nero, maschio/femmina. Con la serie performativa Mythic Being (1973-75), per esempio, camminava per strada indossando i panni del cliché virile del black man, con tanto di parrucca afro, occhiali a specchio e baffoni, incarnando l’apparenza e l’oggetto di tante paure, odi e desideri. Un’altra celebre e più ironica serie performativa di Piper sono le sue Funk Lessons (1982-84), vere e proprie lezioni di danza rivolte agli studenti universitari, in maggioranza white e benestanti, per imparare ad ascoltare e ballare la musica funk, tradizionalmente black e proletaria. Piper non propone soluzioni semplificatorie: nei lavori del ciclo Decide Who You Are (1991) ricorre il ritratto fotografico, da bambina, di Anita Hill, l’avvocatessa afroamericana che nel 1989 accusò di molestie sessuali Clarence Thomas, giudice afroamericano della Corte suprema (nominato dal presidente George H. W. Bush), collocato sullo sfondo di un testo battuto a macchina in rosso, che è una “litania di negazioni”.

 

Anche Everything Will Be Taken Away fa parte di una ampia serie di opere, che consentono a Piper di interrogarsi sul fatto che “Tutto sarà portato via è sia una promessa, sia una minaccia. Cosa ci sarà portato via e cosa consideriamo che sia il “nostro” tutto?”. C’è quindi un altro motivo, più ottimista, per cui Everything Will Be Taken Away continua a tornarmi in mente: tra le cose destinate a scomparire, in effetti, penso ci sia anche un modo di pensare alle relazioni tra umani, tra umani e non umani, tra umani e l’intero sistema ecologico del pianeta arrivato al capolinea, ossidato dal tempo. La tabula rasa, come la lavagna ripulita col cancellino, permette di ricominciare a scrivere storie diverse.

 

Barbara Casavecchia

Critica e curatrice indipendente, insegna
all’Accademia di Brera, Milano

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