(Foto di Ansa) 

Il figlio

L'assenza di lei: mia madre era una guaritrice, sapeva molte cose. L'unica cosa che so è che ora non c'è 

Rešoketšwe Manenzhe

Le voci dei Randagi di Rešoketšwe Manenzhe, romanzo acclamato in Sudafrica, si intrecciano al suono delle leggende e dei miti africani: Abram, Dido e Alisa aggiungono un capitolo all’eterna saga di chi parte, di chi resta, di chi si perde andando. 

Un estratto di "Randagi" di Rešoketšwe Manenzhe, il romanzo d’esordio più acclamato in Sudafrica, in uscita per Solferino il 22 giugno


"Mio papà ce l’aveva, una moglie” disse. “Mia mamma. Ma è morta in aprile. Penso che mi volesse bene... certe volte mi manca”. Dido sapeva di essere sul punto di piangere. Alzò le spalle e proseguì: “Adesso mi resta solo il papà ... certe volte penso che anche a lui manchi la mamma”.
Josephina la abbracciò, e per un attimo Dido si sentì al sicuro, come se stesse fra le braccia di tata Gloria ed Emilia corresse lì intorno in groppa alla mamma, a ridere a squarciagola.
“Il mio amico che è andato in Uganda sapeva tante cose”, disse Josephina. “Può darsi che sia passato dalla casa di quel capo”.
“Può darsi” sussurrò Dido.
“Sai, mia madre era una ngaka, una guaritrice. Sapeva molte cose, anche cose sconosciute, cose che sono lontane anni e oltre questo mondo. Il suo dono era forte. Ma io non l’ho mai avuto. Lei mi manca. Manca a molti. Anche se forse a loro manca di più il suo dono”.
“Sapeva fare le magie, come tata Gloria e la regina della Pioggia?”. Josephina rise. “Noi non le chiamiamo magie”.
“Ah. Tu ce l’hai mai avuta una sorella, Josephina?”. “Io ero l’unica figlia di mia madre”.
“Ma tua madre non poteva fare una magia... voglio dire, se era una strega, non poteva farti delle sorelle e dei fratelli?”
“Essere ngaka non è lo stesso che essere strega. E non è lo stesso di avere un potere magico”.
“Ah, capisco. Allora perché non potevi essere anche tu una ngaka? Se non è come avere poteri magici, non potevi decidere di esserlo?”
“Perché i miei avi non mi hanno mai mandato la chiamata”, disse. Mise da parte gli abiti e i calzoni prescelti e andò a prendere il ferro nell’armadio. “Per questo mi servono le braci del caminetto. Vieni con me?”. “C’è il fuoco?”. “Solo le braci, adesso. Il fuoco si è spento, credo”.
“Va bene” disse Dido, saltando giù dal letto. “Com’è morta tua madre?”
“E’ stata la pertosse di quasi dieci anni fa, e anche l’età. Mi ha lasciato lo scheletro del suo potere e due capanne sul fiume. Ma non la chiamata degli avi. È per questo che non sono una ngaka. E non credo che la chiamata arriverà adesso. Sono troppo vecchia per l’iniziazione”
“Mia madre non mi ha lasciato niente” sussurrò Dido.
“I morti lasciano sempre qualcosa” disse Josephina, “anche quando non ne hanno intenzione. Sennò come fanno ad assillarci?”
Oltrepassarono la biblioteca del signor Joubert e Dido si sentì avvampare per l’ansia. Fiutò l’odore della pipa e temette che le gambe non riuscissero a portarla via di lì abbastanza in fretta; così procedette in punta di piedi e pregò che anche Josephina tacesse, in modo da passare inosservate.
Ma lui tossì, contribuendo a mascherare il rumore dei loro passi.
“Pensi che mia madre tornerà ad assillarmi? E anche mia sorella?” chiese non appena entrarono in cucina. “No, non penso che tua madre e tua sorella ti assilleranno" disse Josephina.
“E se invece lo fanno?”
“Digli che sei una bambina, e i bambini non vanno tormentati”
Josephina rispose dopo un lungo momento di silenzio: “Non è facile da dire”.
“Però c’è qualcosa da dire, vero?”
Josephina annuì. “Ma mi spaventa, perché sei una bambina”
“Josephina”, disse Dido “ho visto mia madre e mia sorella morire. A volte ho visto mio padre diventare triste come lo era la mamma. Cerca di nasconderlo perché sono piccola, ma non lo nasconde bene e io lo vedo. Anche tata Gloria cercava di proteggermi”.

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