(foto di Ansa)

Il Figlio

Un pensiero fisso: la fuga. La notte e le sigaraie che ridono, amiche e alleate

Francesca Maccani

Io da casa mia non me ne volevo andare. Ma poi lui, l’uomo siciliano che mi ha fatto cambiare fuso orario, ha deciso che voleva tornare a vivere a Palermo

Casa era il Trentino, paradiso delle autonomie dove tutto funziona. Finché ci ho vissuto, nel privilegio, non mi ha sfiorata l’idea che altrove potesse essere diverso. In questo altrove vivo ormai da 15 anni, ma il posto maledettamente bello che ora amo alla follia mi ha colpita come uno schiaffo poco dopo che mi ci sono trasferita. Alla prima febbre a 39 del secondogenito, a pochi giorni dal trasloco, sono andata in tilt, non avevo ancora una pediatra, non sapevo a chi chiedere aiuto.

 

I primi anni ho dormito con la valigia pronta accanto al letto, volevo un’uscita d’emergenza. E piangevo. Piangevo quasi ogni sera, di nascosto. Per gli altri ero una donna felice, con un marito bello che mi amava, un lavoro fisso come prof. di lettere e la casa in un quartiere residenziale. Mi sentivo sola come un cane. Non conoscevo anima viva ed ero fuori posto come un dente accavallato. Appena arrivata, ho insegnato nelle scuole dei quartieri più degradati di Palermo, ho toccato realtà inimmaginabili e, di colpo, la mia professione è diventata un incubo. Non ero pronta a sostenere il peso di una cattedra al Cep (centro edilizia popolare in periferia) o a Villaggio Santa Rosalia, dove i ragazzini vengono su per dispetto.

 

E poi c’erano i miei figli a cui badare, ancora troppo piccoli. Rette altissime per asili privati perché la scuola pubblica è un miraggio, stipendi interi alla baby sitter perché da sola – mio marito lavorava giorno e notte – non ce la facevo. E se lavori sapendo che a fine mese in tasca non ti rimane nulla, la motivazione si azzera e ti resta solo la rabbia. Sono stati anni di grande fatica, di stanchezza, di avvilimento. Non era la vita che immaginavo. Scappare era un pensiero fisso. Ma ho rimandato la fuga e sono rimasta. Palermo è casa, ormai. Sono rimasta per i miei figli. Negli anni ho trovato la mia vera alleata: la notte. Quando gli altri dormono, io vivo. La notte è il tempo sacro in cui leggo o scrivo, ma anche qui l’ansia mi tende agguati: mi ricorda i mille sbagli, le assenze, l’egoismo, e mi fa scordare qualunque merito io possa avere avuto come madre. Il fallimento mi tallona, insieme ai sensi di colpa.

 

Per fortuna, poco prima dell’alba, con le luci fuori dal balcone arriva anche un bagliore di consapevolezza: basta flagellarsi, così non ne esco. Mi attraversa un brivido mentre sento respirare i ragazzi, ognuno nella sua camera: non dipende da me. Devo smettere di credere che la bravura dei miei figli sia proporzionale al mio investimento in termini di educazione e tempo insieme. E’ un grande bluff: i figli, come quasi tutto nella vita, sono più che altro una questione di fortuna. Sarà che due delle creature che ho messo al mondo attraversano le acque melmose dell’adolescenza. A quasi cinquant’anni non ho ancora imparato che i miei figli non sono me, detestano leggere e sono poco interessati a quello che mi scalda il cuore.

 

Le donne dell’Acquasanta, le sigaraie palermitane che negli ultimi mesi hanno accompagnato le mie notti insonni, i figli li accudivano giusto il tempo per farli sopravvivere, poi ci pensava la strada a crescerli, proprio come i ragazzini che sono stati miei alunni al Cep o al Villaggio dove ancora la gente spara per strada. Che risate si sarebbero fatte ascoltando queste mie paranoie. Fissarìe, le avrebbero liquidate. I figli devono venire su da soli, direbbero, storti o dritti lo decide u’Signure. Lasciali cadere in pace, non allungargli la mano. La prossima volta che dovranno rialzarsi, lo faranno da soli.

 

Francesca Maccani, autrice di “Le donne dell’Acquasanta”
(racconto inedito)

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