Il Figlio

Le parole da cancellare per l'anno nuovo: mantra, non ti ho ucciso abbastanza 

Michele Neri

Una lista di buoni propositi per cambiare parole, domande ed espressioni pericolose per sè stessi e per i figli

E’ difficile ma ai figli vorrei riservare soltanto le mie parole migliori. Ripetendo quanto dichiarava lo scrittore Nicholson Baker a proposito della prosa del suo maestro, John Updike, mi piacerebbe che al loro cospetto le mie parole si presentassero sempre in black tie (Baker aggiungeva: con la punteggiatura più cazzuta). E’ una responsabilità. E nel 2021 non è andata così: quanta zavorra, quante bruttezze nel mio linguaggio. Cambio i calendari di casa? Puliamo il vocabolario. Cosa butto dalla torre?

Inizio dal tempo, che altro? L’anno prossimo. La successione temporale è un concetto superato. L’hanno capito tutti e tre e prima di me che il biennio 20-21 è stato una porta, oltre la quale c’è un ordine diverso e da cercare, a tentoni, al buio. Dovrò comunicare la bellezza dell’oscurità. Stavo per dire: l’elogio dell’incertezza ma mi rendo conto che da un’eternità, cosicché i figli anelano ordine e certezze, è il mio mantra. Ecco una parola che non ho ucciso abbastanza. 
Non dirò più inforestarmi, inforestatevi eccetera. La mia ribellione al cemento è diventata ossessione di gruppo. Ai grandi ho imposto di leggere Walden, a tutti le camminate sull’Amiata. Passiamo al bosco! Sì! Certo. Quando?! Mi sfidano in coro, sapendo che a me basta agitarli un po’. Ti spiego. Non sono più in grado. Avrò detto di nuovo virtuoso? O quanto conti parlare di futuro, come se non lo sapessero? La lista si allunga. Lista: se ne sta sul baratro da anni. Ma è così comoda.

Domando agli interessati. Che cosa non vuoi più sentire da me? Il grande: “Smetti di dire che è questo il momento per uscire, divertirsi perché poi arriverà la nuova ondata”. Gli mette agitazione. La piccola: “Non chiedermi più ce la fai?”. Non le piace il suono, spiega. Ribatto: perché stai crescendo (affrettandomi a tagliarle la cotoletta). A crocifiggermi è la sorella grande: “Non dire più sottone o sottona”. Lo suggerisce per proteggermi, ma che vergogna. Ho preso questo squallore facendolo diventare il segreto discrimine quando mi presentano qualcuno, penso a qualcuno, mi parlano di qualcuno. 
Acquiescente: quanto sono deficiente nell’usarlo per descrivermi. E’ per far sentire in colpa gli altri, aiutandomi con il gemello, transigente.
Quanto mi sentivo inopportuno, eppure non ho rinunciato a curiosare: quindi state insieme? Quindi? E poi dovrebbero essere almeno in tre, a sentire la piccola e la sua allegra banda.
Eliminare quindi buttato lì a sfidare l’impossibile.

Altre domande cui non far passare la frontiera.
Che tempo farà? Non sopporto il loro correre a controllare ilMeteo. Ho generato figli che parlano di gelicidio ma non distinguono bello da brutto.
Da uno a dieci, a cento quanto sei… soddisfatta, triste, stanco? Pontifico contro la società data-driven, (anche data-driven…) e sono io ad averla inventata. Per tranquillizzarmi? Per controllarli?
Dire: ho capito. La colpa non è mia, è che capire diventa un’ambizione presuntuosa, inadatta ai tempi.

Parole pericolose perché possiedono un bel suono ma poi s’incollano. 
Soglia. Mi sento sulla soglia. Oggi ci parliamo soltanto dalla nostra soglia personale.
Intensità. Nella vita solo l’intensità conta.
Fluido.
Déjà vu: il 2021 è stato l’anno del déjà vu. Vogliamo ricordarlo ancora?
O-riz-zón-te. Dio solo sa quanto mi manca in città! Parola da scandire con solennità per entrare nello Sciocchezzaio. 
NFT: ogni volta che ho cercato di spiegarlo bluffavo.
Siviglia. Atene. Oslo.  Non è la Casa di carta (anche se) ma le città che nomino a caso quando minaccio di andarmene a vivere in un monolocale, fingendo un investimento per il loro futuro. 
Un concetto che già si candida a non arrivare integro al 2023: colpa dell’inflazione. Figli che non conoscono gli anni Settanta, i loro sguardi perduti nei miei perduti nell’estratto conto, ogni giorno del 2022. 
 

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