Elaborazione grafica di Francesco Stati 

Il figlio

Storia Aperta. Come si scrive di un padre?

Tu, io, lui e le traiettorie dello sguardo di un figlio

Di quante traiettorie può comporsi, lo sguardo che un figlio posa su suo padre? Quanti echi di voci convergono, nella voce che uno scrittore trova per raccontare l’uomo che ho la generato, parlare di lui, stabilire un confronto narrativo prima ancora che psicologico. In Autobiografia di mio padre (L’orma editore, 2019) lo scrittore francese Pierre Pachet inventava l’iperbole di una voce filiale che si fa paterna, un’autobiografia traslata, per emanazione, a partire dall’empatia di uno sguardo di figlio che introietta quello paterno e lo fa proprio, così che la voce interiore del padre divenga la sua, di figlio. In Storia aperta (Bompiani, 661 pp.) Davide Orecchio compie un’operazione altrettanto complessa. Ricostruisce la storia di suo padre imprestandogli un nome fittizio e re-immaginandolo così da creare una figura a mezza strada tra persona e personaggio, tra fantasia e verità, tra memoria e storia per come viene catalogata (“non parliamo alla vita, ma alla vita archiviata”).

 

Concepisce un’architettura narrativa ampia ed eccezionalmente sottile; articola e ritma una lunga ricognizione del Novecento, scandisce la storia politica italiana tra ascesa del fascismo, articolarsi del comunismo, successivi declini e metamorfosi di entrambe le ideologie. Attua tutto questo osservando Pietro Migliorisi, il suo padre/non padre, passo passo seguendone la contorta, prolifica esistenza, il grande amore drammatico con la giovane Michela fatalmente inarrivabile, il rovello al pensiero del figlio lontano, l’enigma e il peso di una militanza politica intessuta di cambiamenti radicali e radicali interrogativi: fascista prima, comunista poi, secondo un’oscillazione che è tormento vitale prima che ideologico. Pietro “non sa essere libero”, è gregario nell’anima ma anche del tutto indipendente e dissacratore. Un uomo che di continuo si ridiscute e “combatte l’uomo che era”. Un figlio del Novecento pensato come “diacronico”, qualcuno che attraversa il tempo, è un giovane balilla, fa tre guerre d’Africa, poi è partigiano attivo nella Resistenza, e dopo ancora vicino a Di Vittorio e a Togliatti, e ancora più in là, protagonista del passaggio del Pci verso nuovi nomi e nuove identità. E mentre attraversa queste fasi e appartenenze politiche (in parallelo a un’identità di padre rincorsa nel pensiero e mai vissuta davvero), quello stesso uomo costruisce la propria identità, una natura composita, contorta, ambivalente, umanissima.

Con questo personaggio/persona, Davide Orecchio – da figlio e da scrittore – stabilisce un corpo a corpo e intrattiene un dialogo che commuove per intensità e colpisce per spessore morale, per l’intelligenza con cui distacco lucido di “storico narratore” ed empatia di figlio in cerca di una vicenda mai compresa si mescolano. Generando una prosa fluviale, come una lunga nenia, una metrica interna al racconto che sa renderne l’intensità e la sedimentata urgenza (accanto ad altri libri bellissimi, Storia aperta è frutto di vent’anni di ricerche e riflessioni). Come si scrive di un padre? La cosa più straordinaria di questo libro straordinario, documentatissimo quanto romanzesco, è l’uso della seconda persona. Un “tu” che diviene “io” o “lui” e lo diviene idealmente, ricoprendo tutta la gamma di modi possibili di riconsiderare un padre. Un “tu” in cui si condensa quell’ “infedeltà biografica” che può rendere finzionale la storia e storica la finzione. Nella seconda persona si addensa la libertà dell’immaginazione e si insinua l’inquietudine assolutamente vera ma anche letteraria di un uomo che cerca suo padre, perché solo incontrandolo potrà rendere la propria scrittura letteratura, e la propria storia un racconto dicibile. “Non l’hai detto, non l’hai scritto. Sono io che lo scrivo per te”. C’è la vita lacerata di Alfredo Orecchio/Pietro Migliorisi, in quel “tu”. E come tocca il cuore, questa “storia aperta” di un figlio che reinventando il padre gli ridà corpo e verità, e narrando lui consacra la propria vocazione e la vita, quella passata, e la presente e la futura. Lisa Ginzburg

 

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