Foto Fabio Ferrari/LaPresse

Il Figlio

Asilo club

Mirko Volpi

Di nuovo quella domanda: sarà felice? Di nuovo il desiderio di sapere tutto

Due anni fa consegnavo a questa rubrica un pezzo sull’Asilo Club, il misterioso luogo in cui, per la prima volta, mio figlio Ludovico, allora treenne, aveva iniziato a trascorrere le sue giornate lontano da noi, i suoi attentissimi, preoccupatissimi, analiticissimi genitori. Trincerato dietro un esasperante mutismo che nessun “Tutto bene” elargitoci quotidianamente dalle maestre a ogni uscita da scuola era in grado di sanare anche solo in parte, Ludovico si avviava lungo gli accidentati sentieri dell’infanzia pre-scolare, landa ingannevolmente gommosa e tintinnante di risate argentine e gratuite. Io, il padre, costretto dalla recente piega degli eventi a essere un genitore ultrapresente e vigilante, e non il disimpegnato uomo del secolo scorso che avrei voluto essere nei miei sogni reazionari, iniziavo a refertarne con autolesionistica acribia le giornate, gli ingressi in classe, le esitazioni, gli inciampi, i celati progressi, le prime simpatie, e i silenzi, i sempre più impenetrabili silenzi.

 

Non sapevo, due anni fa, che attorno a quel pezzo su una festa di carnevale con i compagni di asilo – e noi, i suoi genitori, ma poi specialmente io, io che avevo sempre voluto credere che le cose crescono meglio se non le guardi, lì a scrutarne ogni gesto, ogni parola, ogni lampo di incomprensibilità nei suoi occhi – non sapevo che stava nascendo, si stava già formando nei frammenti di mille registrazioni mentali, un libro, che non poteva che intitolarsi Asilo Club. Come fin da subito ho ribattezzato la scuola dell’infanzia “Aquilone” di Pavia dove Ludovico si è trovato catapultato – come tutti – a tre anni. Dal nome all’idea, dall’imposizione onomastica al suo, ancora oscuro, nonostante tutto e tutto il tempo trascorso, senso. Perché l’Asilo Club è il Fight Club della non meno feroce infanzia: prima regola, non parlarne. Mai. Soprattutto a questo scadente Palahniuk dei padri. L’impossibilità di sapere il menù del giorno o le attività svolte o i nomi dei compagni di gioco è diventato presto il correlativo del più ampio mistero che sono i figli, i bambini tra i tre e i cinque anni: cosa dicono, cosa pensano, cosa provano, cosa temono, cosa sperano davvero. In che tipo di linguaggio traducono le trafitture, le buone e le dolorose, del mondo. Come decrittano nella loro tenera mente super-assorbente i segnali adulti, le imposizioni senza senso, i no, i sì casuali, le norme, i perché dei mutamenti, le ragioni delle persistenze.

 

E cosa ci facciamo, lì in mezzo, noi padri. Che ruolo abbiamo. In un’epoca dominata dal terrore dello sbaglio educativo, atterrita dalla possibilità del trauma, quale margine di errore ci è concesso: o ci concediamo. Le domande, con scontata ineluttabilità, sono ancora tutte lì. Chiedevo a Ludovico, cioè a me stesso: “Come stai, cosa fai, in quello slargo di esistenza che non possiamo più sorvegliare?”. Siamo agli ultimi mesi di Asilo Club, già si affaccia prepotente il pensiero  del nuovo capitolo della scuola primaria, e quest’anno si è aggiunta nei tragitti quotidiani pure la secondogenita, Agnese, di altra eloquenza armata, ma il gravame del non sapere è sempre, più o meno, quello. Scrivere non mi è servito a capire: forse solo a mettere ordine negli interrogativi. Sono ancora qui così, come un anno fa, quando alle soglie della pandemia ho deposto la penna, nel ciclico cedimento alla più tremenda e stupida delle domande: sarà felice? Il non terapeutico resoconto della mia banale vita da padre accompagnatore e osservatore non ha contribuito a svelare alcuna miracolosa verità. Restano lo scrutinio dei sentimenti, gli inconfessabili eccessi emotivi, la perenne conta dei silenzi: e la robusta certezza che l’avvenire porterà nuove domande, nuovi misteri, nuove, improvvise, radiose giornate di sole.
 

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