2 marzo 1940: una strada nel sobborgo di Ballymacarett, Belfast, sotto la pioggia (foto di Humphrey Spender, Getty Images) 

Il figlio

Dolce casa

Lisa Ginzburg*

Figlie, fidanzate, amiche: normal people d’esordio, ricca di forza e di ferite. Lo sguardo di Wendy Erskine, pieno di arguzia e di misericordia, definisce ogni storia riconducendola al vortice del vivere

Tutto si muove intorno ai personaggi dei racconti dell’irlandese Wendy Erskine (Dolce casa, Atlantide, pp. 240, euro 24), tutto è cinetico come cinetico è lo spazio quando si vive accanto agli altri, con loro (quel che da più di un anno non succede più, per intendersi). L’ambientazione è Belfast, città di nascita di una scrittrice che con questo esordio ha conquistato pubblico e critica (si è parlato di “infective literary voice”, e qui la contagiosità è lode massima). Le figure protagoniste dell’universo di Wendy Erskine sono per lo più giovani, immersi nella vita quanto ogni volta impediti ad attraversarla con la felicità necessaria. Tragedie, dimensioni sfuggite di mano, speranze oblique, composte di misericordia e di rabbia. Accanto ai personaggi protagonisti, altre figure dalle brevi irruzioni, ognuna che parla e pensa e intrattiene col mondo una sua relazione. I dialoghi sono tanti, corali, e dietro questa vita collettiva sempre mossa si avverte il dolore appostato dietro esistenze quotidiane le più comuni e svariate; si intuiscono tristezze, ferite, incerti e spesso sabotati tentativi d’amore, altre volte invece la grazia, una qualche leggerezza, barlumi di allegria. 

 

 

Risse, amori, dissipazioni. E il miracolo di una messe ricchissima di frangenti e dettagli di ogni tipo: turbinano intorno ai giovani di Erskine mise, pettinature, stoffe, utensili, oggetti, passanti e i loro dialoghi intercettati, minimi dettagli riprodotti con estrema precisione. “La fragilità di tutto lo travolse e la bellezza anche, perché c’era la felpa di Marty stesa in balze illuminate come la manica di uno di quei vecchi dipinti, e c’erano gli asciugamani bianchi sul pavimento: secoli di persone chine a pulire lenzuola e asciugamani, strofinando macchie e sporcizia, sciacquando via tutto, l’acqua che ruota giù nello scarico, e infiniti fili di bucato, alti nel cielo, che ondeggiano nel vento forte”. Docente di scrittura alla Glasgow University, Wendy Erskine domina con straordinaria competenza le leggi della descrizione, e ciascun racconto è un caleidoscopio vivido di molte tonalità. Ci sono strade di Belfast, scorci, anfratti; e case, e moltissimi oggetti, e tutto quanto rende comune e speciale la vita – la sua rumorosa simultaneità di dimensioni – senza che nulla o pochissimo venga detto delle emozioni, lasciate trasparire attraverso gli stessi dettagli materiali, o grazie a scambi rapidi e crudi del continuo confrontarsi, sostenersi, fronteggiarsi di tutti. Qualcosa di Dolce casa tocca e scuote, qualcosa che sino a un momento prima stava acquattato all’improvviso invece prende a sgorgare, passando attraverso interstizi che sono i colpi inferti dalla vita, ferite e occasioni, quelle brecce che solo la scrittura riesce ad aprire. 
 

 

“Barry provò a telefonarle ma non ebbe risposta. Una sera mentre stava andando a dormire lei si era presentata alla sua porta. Come fai ad essere così magra e così gonfia allo stesso tempo? Lei disse che non sarebbe rimasta molto, che entrava giusto per un paio di minuti. Lui preparò del ̀tè nelle tazze dove un tempo avevano bevuto il vino”. Le ragazze (figlie, fidanzate, amiche) tutte avvertono una grande solitudine, ma anche il respiro di un loro universo proprio. Le loro relazioni baluginano come lampi, a fendere una cortina densa di malinconica rinuncia; eppure sempre  una “dolce casa” c’è, e quella casa è il proprio sguardo, la propria peculiare visione del mondo. 
 

Il dolore irrompe, la vita marca distacchi, fratture, occasioni mancate. Lo sguardo di Wendy Erskine, pieno di arguzia e di misericordia, definisce ogni storia riconducendola al vortice del vivere. Con questi bellissimi racconti viene a ribadirci che tutto si può raccontare e che tutto va raccontato: stando all’erta, in ascolto, narratori famelici della densità emotiva nascosta dietro ogni consuetudine. Quanto a lei, da vera scrittrice se ne sta in disparte per fare quello che sa e vuole fare: narrare.
 

*Lisa Ginzburg è candidata al Premio Strega con “Cara Pace”

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