Il figlio

Dove sono i nostri bambini? In quali pensieri? Viaggio al termine di uno strano oblio

Ti ricordi di me?

Marianna Rizzini

"Che fine hanno fatto i bambini". Tra il titolo del nuovo libro di Annalisa Cuzzocrea e la nostra realtà di vite investite dal Covid, c’è l’enorme buco nero di un’infanzia e di un’adolescenza non viste, prima che dimenticate

Il mondo salvato dai ragazzini, e il nostro piccolo mondo che se non ricomincia a vederli, i ragazzini, si fa scappare di mano tutto il futuro. Tra il titolo del libro di Elsa Morante, citato non a caso da Annalisa Cuzzocrea, autrice di “Che fine hanno fatto i bambini” (appena pubblicato da Piemme), e la nostra realtà di vite investite dal Covid, c’è l’enorme buco nero di un’infanzia e di un’adolescenza non viste, prima che dimenticate: bambini e ragazzi che ai tempi dei primi Dpcm non erano neanche considerati, se non come sottinteso di pericolosità, guardati male dai balconi e al supermercato.

 

Bambini e ragazzi da un giorno all’altro catapultati fuori dall’aula senza neanche poter prendere i libri rimasti sotto al banco, e precipitati nella nuova dimensione Dad: un “a distanza” che non è uguale per tutti, come si scopre o si ha conferma lungo questo viaggio-inchiesta nella dimensione non guardata dei mesi di pandemia e nel profondo dell’eccezione negativa italiana, il paese dove il minore spesso non è neppure pensato, dalle aule al carcere per interposta madre cui sono costretti i figli piccoli delle detenute. E però poi, quando viene illuminato e interpellato, il mondo-ragazzino svela la sua forza. 

 
Non abbiamo i grandi spazi dedicati ai bambini come nei grandi parchi e musei nel Nord Europa, ma abbiamo il primato delle scuole chiuse più a lungo degli altri. E scuola chiusa vuol dire ascensore sociale bloccato. Perché? Parlano i dati, ma parlano soprattutto le storie. Parla Luca, il tredicenne che si è trovato, a inizio pandemia, a doversi salvare da solo, in casa, positivo e con la febbre, mentre il padre era in terapia intensiva e la madre, malata e ugualmente positiva, veniva ricoverata in ospedale, per poi far fronte alla “mancanza di respiro” della fase grave del Covid, non potendo essere soccorso dal fratello adolescente. E se i centralini gli dicevano “non sei grave”, Luca si sentiva gravissimo, ma se ne accorgevano soltanto i suoi amici in chat, tredicenni come lui, quelli che hanno attivato genitori e amici, fino all’epilogo, nel suo caso fortunato.

 

E parla la decisione di Rachele Furfaro, nei Quartieri Spagnoli di Napoli: portare la scuola sul terrazzo, nelle piazze e nelle strade mentre gli istituti venivano richiusi in autunno, per cercare di arginare la dispersione in una delle regioni dove più si rischia l’allontanamento precoce dallo studio. Ma a monte del “non vedere” i bambini e i ragazzi nell’emergenza ci sono altre e più durature sviste, e lo dimostra, per contrasto, l’esperienza di chi non ha mai perso il proprio sguardo “bambino”, come raccontano la scrittrice Nadia Terranova e la regista Francesca Archibugi, interpreti della ricchezza di sfumature che si rivela quando i bambini, per dirla con la sociologa Chiara Saraceno, non vengono trattati come “bagagli appresso”, appendici di famiglie che da un lato li iper-proteggono e dall’altro, per prepararli a essere adulti, dimenticano di osservarli per quello che sono lungo la strada.

 

Perché i bambini, in questo anno, sono stati così poco pensati? Non si può rispondere a questa domanda senza risalire all’origine di un automatismo politico-mediatico-culturale – relegare il tema “infanzia e scuola” all’ultimo posto dell’agenda – o senza indagare le ragioni psicologiche di una resa alla “fatica” stereotipata dell’essere genitore. Resa che può essere ribaltata nel suo contrario, in una naturalezza che non elude la difficoltà ma la accetta come parte necessaria del percorso. 

 
Poi ci sono le parole e i dati che abbattono il muro invisibile dell’indifferenza (o pigrizia mentale o rifiuto) rispetto a un universo impaurito (bambini che, dopo la prima ondata del virus, si auto-recludevano in casa) ma capace di reagire in modo impensabile. “I bambini sono vulcani”, bisogna “lottare contro lo spreco che ne facciamo”, dice in questo bel viaggio l’educatrice Wilma Mosca, e l’immagine fa a pugni con la reclusione e repressione di energia cui i minori sono stati costretti da un anno a intermittenza. Un vulcano non può abituarsi a questa distorsione della vita, che fa sembrare strana anche la sua ripresa, come quando, ricorda la scrittrice Viola Ardone, i bambini e gli adolescenti sono ricomparsi all’improvviso nelle strade, dopo il primo lockdown, come in una nuova versione del Pifferaio di Hamelin, per effetto di sortilegio. 

 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.