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Domenica? Lasagna

Simonetta Sciandivasci

Un reportage da dentro un matrimonio, e nella libertà di scegliere la leggerezza. Con ostinazione

Molti anni fa, ospite a Victor Victoria, su La7, Sandra Milo raccontò i suoi matrimoni, uno per uno, seduta accanto a un maxi schermo sul quale scorrevano le foto delle sue nozze. Di un marito non ricordava che lavoro facesse, e la cosa divertiva lei e il pubblico, invero un po’ turbato. A me era parso magnifico e m’ero subito augurata di riuscire a fare qualcosa di simile, sposarmi molte volte con soave leggerezza, e ricca e autonoma abbastanza da potermi disinteressare al mestiere dei consorti tanto da non serbarne memoria. Lo penso ancora, è una delle mie utopie (non dico obiettivi perché non vorrei che s’agitasse mia madre – “Posso venire sempre con lo stesso vestito, o devo cambiarlo tutte le volte?”). Però, quando rivedo i comodini che mio zio mi aveva regalato, “per la vostra camera da letto”, una volta che ero in una relazione stabile e monogama che sembrava sarebbe culminata in un matrimonio e invece è finita nell’odio eterno, m’oscuro. Vacillo. E penso che quella soave leggerezza vorrei riservarla a una persona soltanto, ed essere per lei “non più bandiera di un vivissimo tormento, ma solo l’ornamento di una bella sposa” – è Battisti, prima che m’azzannate.

 

Ornamento. Ornamento? Ma siamo pazzi? E’ mortificante, patriarcale, eccetera eccetera. Fatto sta che sono incastrata tra queste due spinte, tra questi due desideri che sono due modi di vedere la vita, e volerla, e che sono agli antipodi per colpa di quanto siamo fifoni, possessivi, borghesi e pigri, tutte virtù antieroiche che rivendico, e che non penso siano colpa del patriarcato. Chiara Sfregola ha scritto un libro che si chiama “Signorina – Memorie di una ragazza sposata” (Fandango), che parla del matrimonio omosessuale e in particolare del suo e di sua moglie, dove dice in diversi punti “è colpa del patriarcato, che mi vuole così”. E siccome è una che s’è sentita incolpare di tutto (ma come, fiancheggi i persecutori?), quando ha annunciato le nozze, lo dice con grande ironia: “Il patriarcato vuole che io sia perfetta, e che mi consumi per diventarlo (ma gli piace vincere facile: sono della Vergine)”. Mettiamo che sia vero, che vogliamo accasarci perché ci viene insegnato e dimostrato che farlo ammortizza le sciagure, aumenta i diritti, accresce il senso della vita, e ci fa ottenere più facilmente un mutuo. E’ così terribile se, nonostante questo, nonostante siamo consapevoli dell’introiezione, delle fregature, delle soppressioni, in quella forma di relazione vogliamo starci? Più che distruggere il matrimonio, dice Sfregola, non possiamo migliorarlo, renderlo più agile, equo, paritario, soave, allegro, onesto di quella onestà che ci permetta di dire, senza vergogna e con grande pragmatismo, che ci sposiamo per amore, ma pure per dimostrare che lo possiamo fare? E visto che forse non riusciremo in questa vita a divincolarci dal desiderio di compiacere le aspettative degli altri, né a trovare un’altra voce del curriculum che, più e meglio del matrimonio, ci assicuri un riconoscimento sociale, e visto anche che i matrimoni infelici fanno più male del colesterolo, soprattutto agli uomini, non possiamo smetterla di affrontarlo con “la pesantezza del burocrate” e, invece, un pizzico di savoir vivre e naturalezza in più?

 

Per farlo, visto che vanno di moda le task force, ce ne vorrebbe una assai composita, fatta da eterosessuali, omosessuali, zerosessuali, unisessuali, onnisessuali, perché ciascuno può portare una prova di ciò che funziona e di ciò che non funziona, di ciò che è scaduto e di ciò che è stanco. Prima ancora, però, è necessario confessarsi le proprie piccinerie, debolezze, passioni. Certo, questo di Sfregola è un reportage e anche un compendio sullo stato in cui i matrimoni (eterosessuali e non) si trovano, ma è soprattutto un diario segreto pubblico, un’ammissione: voglio vivere in una bella casa, essere in grado di perdonare un tradimento, essere autonoma e però anche interdipendente, voglio che a nessuno venga in mente di dire che mia moglie è la mia compagna, perché sono due cose diverse, presuppongono due impegni diversi, non voglio sentirmi in colpa o in imbarazzo per aver lottato per quello che, lo riconosco, è un privilegio.  

 

Paolo Poli ci rideva, ed era naturalmente molto serio, quando diceva di aborrire le nozze gay: “Io voglio seguire l’istinto, non tornare a casa e trovare uno che ti fa la besciamella”. L’ho sempre pensata come lui: voglio seguire l’istinto, e la besciamella comprarla già pronta. Poi è arrivato questo libro e mi ha chiesto di chiedermi se quella mia posizione non è ideologica, introiettata, indotta, al pari di quella che fa sentire mia zia obbligata a fare la besciamella fresca ogni domenica. Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà. Vale anche per la lasagna della domenica.