Era mio padre

Simonetta Sciandivasci

Marta Barone si immerge negli anni Settanta e ricostruisce con amore il romanzo del padre: uomo

Conosco mio padre senza capirlo. O forse è il contrario. Capisco mio padre senza conoscerlo. E’ qualcosa di intenso, misterioso, sciamanico, e soprattutto faticoso. Esiste, tra me e lui, una specie di barriera, che si fa sentire e vedere quando parliamo ma sparisce quando ci guardiamo, naturalmente da lontano, che non so dire se sia una frontiera, e se sia superabile semplicemente aspettando il mio turno e pagando la dogana. Con mio padre è difficile distinguere un muro da un valico, un abbraccio da una morsa, un saluto da un commiato, una preoccupazione da un’accusa, una domanda da un’aggressione. So quando mente, però. E so quando sta male. E so quando sta bene. E so quando viene ferito. Mi sono domandata se sarà sempre così, o se questo sapere e questo conoscere, che sono una specie di chiaroveggenza, finiranno come finiscono sempre le scorte, falliranno come falliscono sempre le previsioni. E tutte le volte che me lo sono domandata, ho cercato mio padre nelle cose soltanto sue, ho sbirciato nel suo portafogli, nella sua agenda, nei libri che ha letto e che mi sono sempre sembrati una biblioteca clandestina, con tutte quelle coste consumate e pagine ingiallite e Toni Negri e Bianciardi e Victor Serge. Non ricordo una volta in cui, durante queste ricerche, non mi sia parso un estraneo. Sbagliavo, era solamente uno straniero.

 

L’uguaglianza e la vicinanza tra te e lo straniero la capisci se smetti di cercare, in lui, tracce di te. Ho cercato, in mio padre, non mio padre, ma tracce di me. Pensavi al mio futuro, papà, mentre leggevi “La vita agra”? Dove stavo, io, papà, nelle sottolineature rosse o in quelle blu, nelle frasi indimenticabili o in quelle importanti? Quale poesia di Pasternak ti ha reso il genitore che sei? Mi immaginavi quando avevi vent’anni? Ma come cazzo è possibile che tu, proprio tu, abbia messo un cuore accanto a quel verso di Éluard che fa “Noi ci ameremo tutti e i nostri bambini rideranno / della leggenda nera in cui piange un solitario”?

 

La storia del romanzo di Marta Barone, “Città sommersa” (Bompiani) comincia a pagina 71, quando Marta incontra una delle donne che suo padre ha amato e scopre che militava in Servire il popolo – “li avevo solo sentiti nominare come una setta di fanatici, quasi comici nel loro integralismo insensato”. E da lì in poi capisce che per conoscere suo padre, sapere la sua storia, qualcosa di vero, non deve cercare il genitore, ma l’uomo. Deve smetterla di cercarsi nella vita di lui, di seguire le tracce che in lui ha lasciato. Devi perdere l’orientamento per capire chi è tuo padre: è il senso, o forse il risultato, di ogni pagina di questo libro.

 

Il padre di Marta Barone, Leonardo Barone, è morto quando lei era già adulta, e nata per la seconda volta da due anni – così racconta lei, d’essere nata quando sua madre l’ha partorita, nel 1987, e quando s’è trasferita a Milano, da sola. Non ha vissuto con lui che per pochi anni, poi lui è andato via di casa, e lei lo ha frequentato senza regolarità, con diffidenza. Ha iniziato a indagare su di lui dopo che una notte di Natale ha riletto la memoria difensiva di un processo che lo aveva visto imputato per partecipazione a banda armata, a Torino, negli anni Settanta (questo è un libro perfetto per capire la nebbia di quegli anni formidabili, e cos’è successo quando s’è alzata e le cose sono tornate visibili, nette; è un libro perfetto per capire com’è stato l’incontro tra la generazione che è cresciuta nella nebbia e quella che è cresciuta senza nebbia, dovendo e volendo sempre affrontare le cose per come erano e non per come si sognava che fossero; un libro perfetto per capire cos’è, per i millennial, essere figli). Prima di quella notte, sapeva poco: lui era un medico, e stava sempre dalla parte degli operai, e si era ritrovato a soccorrere un uomo ferito, che però aveva assassinato qualcuno. Legge le carte del processo, Marta, adulta, e capisce che deve sapere, e deve farlo soprattutto perché lui non avrebbe voluto che lei sapesse. Ho letto in molte recensioni di questo libro così complesso e intenso, storico e intimo, che racconta “la scomparsa del padre”. Direi di no. E non solo perché, leggendolo, ho capito che i padri scomparsi sono quelli che hai davanti agli occhi, e sei tu a farli scomparire, con la tua smania di rintracciarti in loro. Questo è un libro sulla scissione che è la paternità. E racconta molto lucidamente a cosa serva conoscere il proprio padre: a liberarlo da quello che ci aspettavamo che fosse per noi, ed estinguere, così, ogni debito, ogni servitù di passaggio. “Questo libro esiste perché non c’è più l’uomo”, eppure, senza questo libro, Leonardo Barone sarebbe morto dopo che è morto. E invece è vivo, noi lo possiamo leggere e lui ci può aiutare.

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