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Papà, io esisto

Mirko Volpi

L’impenetrabile società segreta dei figli piccoli e i nostri goffi tentativi di indagine. Sarà felice?

Dopo notti a meditare sulle sue ondivaghe, inafferrabili preferenze, e incerti su ciò che potrebbe volere lui, su ciò che ameremmo vedere noi, ci risolviamo per il sempreverde costume da cowboy. Le mamme della sua classe hanno organizzato una festa di carnevale. Fuori però dagli oscuri penetrali dell’Asilo Club, il luogo in cui, per la prima volta, a tre anni, Ludovico trascorre le sue giornate lontano da noi, senza che se ne sappia nulla, che ce ne dica nulla, mai (prima regola dell’Asilo Club, non si parla dell’Asilo Club), membro effettivo di quell’impenetrabile società segreta che è il forzato congresso di tre, quattro e cinquenni. Tutto ignoriamo e tutto ci sembra di ignorare di lui, da quando la misura del suo orizzonte si estende oltre la confortante triangolazione genitori-nonni-parchetto. Lui, ora a contatto con l’Altro, non parla (non di questo, non di quello che coi mille sotterfugi retorici da genitori modernamente ansiosi vorremmo estorcergli invano) e tutto è muto anche dietro gli sguardi, negli occhi vaganti, nelle flebili proteste prima di vestirsi, il lunedì mattina. Le cose scorrono e ci pare di non sapere affatto come. Alla festa di carnevale – ci diciamo scioccamente fidenti – vedremo, studieremo i meccanismi, le interazioni, le geometrie dei rapporti, le gradazioni della serenità; accederemo forse alle verità che spettano (così crediamo) per diritto naturale ai padri, alle madri.

 

In mezzo a molte Else, ad alcuni supereroi, a un pirata, a una coccinella, a una Minnie e a due Gufette, si fa avanti il nostro cowboy, che, ad onta di ogni correttezza politica, da giorni va ammazzando a revolverate decine di indiani scaltramente annidati nella libreria o dietro le tende del salotto. Qui, penso io mentre lo vedo ciondolare tenendosi a distanza di sicurezza dai già convenuti, si dovrebbero replicare le dinamiche asilesche, ma senza il controllo e la inibente direzione delle maestre. C’è forse, quindi, oggi, qualcosa di diverso, in lui, in loro? Chissà. Esposti all’occhio indagatore dei genitori, così incapaci di decrittare il profondissimo mistero dei loro quasi-uomini, i piccoli selvaggi ballano, si ingozzano, si azzuffano, fanno gruppo e si isolano secondo regole impenetrabili, pascolando come puledri non marchiati in quell’oscuro, feroce paese che è la prima infanzia.

 

Ludovico, che è il più piccolo dei maschi (le femmine sono altro universo, parlano e parlano e occupano con consapevolezza lo spazio, fanno lega, rispondono al suo timido lancio di coriandoli impedendogli l’accesso al trespolo delle dive), si aggira nella sala come un cavaliere solitario, un ignaro Clint non buono né brutto né cattivo, la bandana storta e le braghe di mucca pezzata tenute su con una spilla da balia, schiva quando può la corsa furiosa dei più grandi, azzanna pizzette e frittelle, la camicia bianca è già un cimitero di cioccolato. A volte – io lo guardo, lui non lo sa, parlo con gli altri papà e lo guardo, cercando di cogliere, di penetrare nel fitto del bosco dei suoi tre anni, lo guardo cercando fuori di me una freddezza analitica che mi sia di qualche aiuto, sforzandomi scienziato, osservatore positivista, fallendo – a volte azzarda incursioni nei tumultuanti giochi dei più grandi, ne subisce senza espressione in volto i colpi, è respinto via, si volge ad altro. So, ma a stento, che non mi deve riguardare, che il pur vigile presidio del dominio della sua lotta personale non ammette indebite intrusioni. C’è qualcosa che ora è solo suo. Quando la mattina lo accompagno all’asilo e le nostre ombre ci precedono, me ne chiede conto, e al mio farfugliamento – “l’ombra, ecco, è qualcosa che non esiste…” – replica: “Papà, io esisto”. Ma in che termini, lungo quali nuove vie? Come stai, cosa fai, in quello slargo di esistenza che non possiamo più sorvegliare? La sera, poi, nella chat della classe arrivano delle foto. Ludovico non ride. Allargo ogni immagine, indugio, scruto, tento di sanare le lacune di un racconto e di un senso che mi sono preclusi. Poi mi viene una tristezza opaca, senza spiegazioni che non siano proiezioni distorte su coloro che pur nostri non sono noi, o il cedimento alla più tremenda delle domande: sarà felice?

 

“Si è divertito”, diremo ai nonni, ci diremo tra di noi alla fine della festa, “sì, ha tirato i coriandoli a Sveva e Rebecca, si è divertito”, ma non lo sappiamo, non sappiamo nemmeno se sia un concetto adeguato, intanto parte l’ultima canzone, l’ultimo ballo, sono le 18,30, prende una botta gratuita da un compagno cui risponde, senza pensarci, senza che si guardino, come secondo un loro codice d’ingaggio. Sento un’avvisaglia di inquietudine, poi però usciamo, è sceso il buio, in canna abbiamo ancora qualche proiettile per ammazzare gli ultimi indiani accampati sulle rive del Naviglio.

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