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Un anno dopo mio padre e io siamo più vicini di prima

Mario Leone

Il ricordo affievolisce e invece cresce la memoria. Il primo è qualcosa di legato al cuore, la seconda è sempre legata a un fare, dà struttura e consistenza a un’azione

Era febbraio, un anno fa come oggi. Il sole fendeva i vetri dell’auto riscaldandola come in un giorno di primavera. La strada verso la mia scuola, il traffico impazzito di una città che, quando svela la sua luce, diventa irresistibile. Un giorno come gli altri diventato improvvisamente diverso. Attendevo quella telefonata. Avevo capito da qualche giorno che mio padre sarebbe morto. Per tutta la vita, sono padri e madri a capire in anticipo i figli: ne sentono le paure, gli amori e gli umori. Colgono senza scandalo il loro naturale desiderio di distaccarsi, misto alla voglia che quel laccio non si sciolga mai. I ruoli si invertono solo quando i genitori vanno via. I figli se ne accorgono prima, che i genitori stanno per morire. E’ allora che diventi pienamente maturo. Sono misteriosi movimenti del cuore che è inutile indagare, specialmente quando ti squilla il cellulare e conferma quello che già sapevi.

 

Il sole continua a riscaldare la macchina e il tuo viso, ma un vento gelido investe di colpo la tua vita. E’ sempre così di fronte a quello che non potevi calcolare, o che calcolavi, immaginavi, incurante di quanto poi nella realtà sia tutto diverso. Non ho pianto. Non me lo sono imposto. La mia prima reazione è stata il silenzio.

 

Mio padre era morto a cinquecento chilometri di distanza da me, in ospedale, con mia madre al suo fianco, per qualcuno “finché morte non ci separi” ha ancora un senso, era il loro comune desiderio. Sapevo che io invece, il figlio maschio, il terzo e ultimo, ormai in giro per l’Italia da tanti anni, non ci sarei stato. Chi è lontano dalla sua famiglia vive le cose diversamente. Non sarà mai il primo a ricevere le notizie, belle o brutte che siano. Non vedrà il nipotino appena nato se non qualche settimana dopo. Salterà feste e compleanni. E’ normale. Ricordo che avevo appena lasciato il Gra. Qualche telefonata per arrestare il vortice lavorativo; gli amici più stretti (che come te avevano già capito tutto) e subito la mia macchina era in direzione sud. Passa tutta la vita davanti. I ricordi, qualche sorriso, la logistica da organizzare. I messaggi che fanno trillare un telefono già esausto dal numero di chiamate. La macchina lanciata sull’autostrada riscaldata da una finta aria condizionata e quel sentirsi un po’ più indifesi, un po’ meno figli, un po’ più padri. Poi l’arrivo a casa, i saluti, le lacrime, quelle degli altri.

 

Io no, avevo davanti agli occhi il miracolo della vita di mio padre, vissuto e morto in grazia di Dio. Come ultimo regalo, aveva preparato moglie e figli a questo distacco finale.

 

Trecentosessantacinque giorni sono passati da quel giorno, volati con la vita che stringe, le scadenze, le sorprese, nuove scoperte. Cose belle, altre meno, in mezzo a tutto l’amara constatazione che il ricordo di mio padre si è affievolito. Ho provato scandalo di me stesso. Sto dimenticando la persona verso la quale gli anni hanno accresciuto stima e amore, rendendoli enormi? Non mi capacito. Poi un amico (quelli veri capiscono le cose meglio di te e riescono anche a rimetterti in carreggiata) mi dice che è normale, con la freschezza di chi la vita la vive veramente: “Il ricordo sarà sempre più sfumato e inizierà a imporsi la memoria”. Sulle prime ci ho capito poco. Ricordo e memoria son sempre stati sinonimi per me. Invece sto scoprendo nelle viscere la differenza. Il ricordo è qualcosa di legato al cuore (re-cor) al sentimento, con i suoi alti e bassi, tendenzialmente porta al disimpegno. La memoria è sempre legata a un fare (“fate questo in memoria di me”, diceva Gesù), dà struttura e consistenza a un’azione, essendo l’azione ciò in cui l’uomo realizza se stesso. In questo senso, come dice  Henri Bergson, la memoria non è la facoltà di disporre dei ricordi in un cassetto, ma il vero contenuto della coscienza, coscienza significa in primo luogo memoria. “Ma deve esserci memoria, altrimenti non ci sarebbe coscienza”. Quella che ha cantato Springsteen per 236 sere consecutive a Broadway nel suo ultimo spettacolo. Solo su di un palco abbracciando una chitarra e percuotendo un piano. Qualche rara apparizione della moglie Patty. Ha raccontato dei luoghi dov’era cresciuto, colmo del desiderio di rimanere in contatto con i propri cari, di stare alla loro presenza, di sentire ancora una volta il tocco delle loro mani, ora che non ci sono più. Ha recitato il Padre Nostro di fronte al pubblico chiudendo il suo spettacolo. La memoria è il vero contenuto della coscienza, dice Bergson, e continua dicendo che “la coscienza è il tramite tra ciò che è stato e ciò che sarà, un ponte gettato fra il passato e il futuro”. Così dopo un anno io e mio padre siamo molto più vicini di prima. Quel sole caldo fa capolino anche in questi giorni. La memoria è la sola possibilità di possedere le cose per sempre. Quello che nessun ricordo potrà mai donarti.

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