Roy Lichtenstein, Crying Girl, 1963

Maschio, ebreo, zio. Il romanzo di Repetti

Simonetta Sciandivasci

“L’unica verità è nel pianto”. E nelle risate di questo lessico famigliare yiddish e telefonico

La prima volta che sono andata dalla psicoterapeuta ho pianto. Qualche sera prima avevo sfasciato una porta e allora il mio fidanzato, anziché mostrare ammirazione per i miei superpoteri, mi aveva detto: “Forse devi farti curare”. E quindi eccomi in una stanza con le pareti pastello e le poltrone che più che altro sono poltroncine e un tavolino con sopra le caramelle che vorrei sapere chi ha il coraggio di mangiare davanti a uno che paga per farsi dire in quale misura è psicopatico.

   

Ho detto buongiorno, lei ha detto s’accomodi, ci siamo guardate, io ho fatto il sorriso dell’ascensore, quello che porgiamo agli sconosciuti quando ci troviamo a dividere con loro spazi molto ridotti, per rassicurarli – non ti preoccupare, non sono qui per rapinarti: devo solo andare al settimo piano, giuro. Mi sono seduta e lei ha detto: “Allora?”. E io ho pianto. Prima piano, scusandomi, poi forte, senza riuscire a trattenere niente, neanche il muco del naso. “Non si preoccupi”, m’ha detto, e mi ha indicato un pacchetto di fazzolettini. “Siamo attrezzati”, ha aggiunto, ridendo un po’. E io ho pensato: “Quanto sei stronza”. La seconda volta, che è stata l’ultima, gliel’ho anche detto. Ho tenuto il bigliettino da visita, appena ho un minuto vado a rigarle la macchina. E se si muove con i mezzi, rigo il mezzo. Stronza. Lei, la porta, io, la rabbia che ho, la soluzione che non ho, e che non c’è.

   

Paolo Repetti, scrittore, editore e fondatore, insieme a Severino Cesari, di Einaudi Stile Libero, ha scritto: “L’unica verità è nel pianto”, nelle prime pagine di Esercizi di sepoltura di una madre, il romanzo sulla sua famiglia irresistibile, ebrea e un po’ cattolica (due Pasque all’anno, sempre), matriarcale (i maschi vanno a pesca o scappano), raccontata nella forma migliore possibile: in sketch.

     

“Alcuni terapeuti sono sordi al semplice pianto di un bambino. Perché di questo si tratta. Di un amore perso e del tentativo di recuperarlo in migliaia di ore di ascolto a pagamento. L’unica verità è nel pianto” (scusate la ripetizione, ma è una cosa così vera che ho deciso che la ripeterò sempre, più volte al giorno, fino a che non mi calmo). Io non sono una bambina però ho trovato comunque grave che la mia psicoterapeuta sia rimasta indifferente al mio pianto, che significava una cosa precisa che ho capito leggendo il libro di Paolo Repetti (che è in analisi da quarant’anni, una volta è andato da due psicanalisti diversi contemporaneamente e suo nipote ha commentato: “E’ incredibile che tu abbia pagato entrambi”). L’ha spiegata lui, sotto una fotografia con dentro sua madre che sembrava quel verso di Caproni: “Sii fine e popolare, come fu lei”. “Sono rimasto per sempre fedele all’intensità espressa da questa foto. Credo di aver fatto di tutto per liberarmene. Credo di aver fatto di tutto per non uscire mai più da quella cornice”. Quando sei nato, non puoi più nasconderti da tua madre. Vale soprattutto se sei un maschio. Ed ebreo. E se tua sorella ha fatto tre figli con un disgraziato che se l’è svignata e quindi quei tre bambini gli si sono presentati davanti e gli hanno detto ciao, papà; a me piacciono le caramelle mou, spero anche a te; sei juventino? Se non fai figli, verranno a cercarti quelli degli altri. Se seppellisci tua madre, muori con lei. Se non la seppellisci, non sarai mai libero. Non c’è modo di sbarazzarci di niente, di evitare di dover rispondere a un’adolescente che ci domanda al telefono come si faccia un pompino, di non mentire per garantire un’epica e un eroe a dei bambini senza papà – certo, lo zio ha inventato la scena degli spaghetti di “Un Americano a Roma”.

     

Paolo Repetti ha raccontato che le famiglie ascoltano il pianto che non ascoltano gli psicoterapeuti. Le lacrime che versi e urli quando capisci che non puoi cambiare, e sei irrisolvibile, e assomigli al peggio di tua madre, di tuo padre, di tua zia, che è convinta che Fedez sia palestinese. A un certo punto arriva tua nipote e ti dice: “Zio, sei pazzo però io ti voglio bene lo stesso”. La famiglia resta pure se sfasci una porta, anche se vai dall’analista da quarant’anni e non risolvi niente, e non lo risolvi perché tua madre ti intossica e ti condiziona, e tu cerchi di sbarazzartene ma poi torni sempre indietro, piangendo, inginocchiandoti, incazzandoti, maledicendo Freud. La famiglia fa di te un orripilante moralista che non riesce a pensare che un parente stretto abbia una vita sessuale fuori dal matrimonio senza sentire un dolore alle costole, perché hai paura che l’adulterio farà sfasciare altre porte e che tu non avrai più una nipote che ti creda padre al punto da confessarti che si eccita al pensiero di fare la crocerossina, nessuno che ti accetti nonostante tu sia vecchio e mammone, nessuno con cui ridere per non piangere del dramma che sei, nessuno che non abbia bisogno di un sorriso da ascensore per fidarsi di te.

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