L'uomo che guarda

Stefano Sgambati

Il rapporto materno è enorme, ma il padre chi è? Il tizio a cui viene dato in braccio un neonato

Sono più o meno le otto e venti del mattino, ho già fatto colazione e mi sono vestito: mia moglie è uscita per andare al lavoro e in casa siamo rimasti in due; apro la porta piano e la prima cosa che succede, tutte le volte, da circa due anni e tot mesi, la prima cosa è che sento il suo odore. Il fatto che mia figlia abbia un odore così personale è l’aspetto che, da quando esiste, non smette di impressionarmi, l’unico davvero a cui non riesca a dare una spiegazione razionale, che non mi sembra provenire da alcunché di biologico o fisiologico o ereditario: è suo e solo suo. Mi avvicino piano al suo lettino, anche se tra poco dovrò svegliarla per vestirla e portarla all’asilo, mi muovo in silenzio, perché possa guardarla ancora dormire, ascoltare il minuscolo fiato che il suo corpo produce: ho il sapore del caffè americano in bocca e ci troviamo in un attico sui Navigli, ma in questi momenti sono la bestia, l’animale con l’olfatto appuntito, il mammifero che protegge il suo cucciolo dalle avversità della giungla. Il meccanismo cognitivo per cui, una volta lì dentro, io riconosca il suo odore, senta, percepisca mia figlia come tale, a partire dal suo odore, è in effetti ciò che mi rende un genitore, nel senso più ferino del termine, sebbene io di vita non ne abbia covata, né l’abbia custodita o data. E’ solo una questione di corpi umani che si appartengono, che dipendono l’uno dall’altro per ragioni, non so, cosmiche, rettiliane: lo dimostra il modo in cui la bambina si sveglia lentamente, mentre io sono lì a osservarla, come se la mia presenza avesse modificato qualcosa di profondissimo e minuscolo a livello di pressione atmosferica. La sua figura è una miniatura umana perfettamente imperfetta, com’è proprio di chi ha ormai una vita autonoma e va incontro alle situazioni della giornata e ai disagi, l’unghia dell’alluce sporca, due escoriazioni sugli stinchi di cui non so nulla, le tracce di vecchie punture di zanzara grattate con troppa foga, una vertigine tra i capelli, il leggero velo biancastro di saliva asciugata intorno alla bocca, un arco di lanugine nella piega del collo dove suda di più. Io sono il padre, sono questa maschera misteriosa, se non da tutti osteggiata, spesso minimizzata, la figura che resta minuta, che non lievita, il difetto o il male necessario; che non dà vita, né nutrimento, che non immola il proprio corpo alla causa, che non spalanca le cosce davanti a un capannello di sconosciuti e poi spinge, la sua spina dorsale non riceve aghi grandi come radici di alberi e non ha vagine su cui applicare alcune decine di punti, e che proprio in virtù di questi difetti è un miracolo: quando mai, nell’umano, da qualcosa di così piccolo germoglia qualcosa di tanto grande?

 

Il padre è un tizio a cui a un certo punto viene piazzato in braccio un neonato e tutto il lavoro di nove mesi gli tocca in venti, trenta secondi. E’ quello che va in sala d’attesa a dire tutto bene, pesa tre chili e quattrocento grammi, ma chi? Chi è che pesa tre chili e quattrocento grammi?

 

Sono le otto e ventitré, otto e ventiquattro.

 

La sfioro.

 

Il suo corpo reagisce al contatto, ritirandosi come una mimosa pudica; è un momento intenso, quello in cui una bambina qualsiasi riprende coscienza nella sua stanza e diventa mia figlia. Qui la società, il mondo deve arrendersi davanti a chi sono: io stesso mi arrendo, soccombo, è una sostanza che fluisce in me, da me; che accolgo. E’ sufficiente osservare come un che di profondo cambi in lei nel momento in cui mi vede e come ciò le basti: è una frazione di secondo che posso riconoscere anche dietro al capriccio, al momentaneo malumore, se è malmostosa, se non ne vuole sapere di farsi vestire, se prima pretende il suo pupazzo e poi lo scaglia lontano, non importa, io l’ho visto succedere, ho visto mia figlia ritrovare la fiducia nell’universo tramite me.

 

Di questo ruolo stranissimo ho dovuto appropriarmene, di essere padre ho dovuto convincermene, ed è stato faticoso e mi ha fatto sentire vulnerabile e debole, così bucherellato che a volte m’è sembrato di sentire passare il vento attraverso, ma è stato anche bello e potente e – non saprei in che altri termini metterla – diverso da qualsiasi altra sollecitazione; il rapporto materno a guardarlo succedere è enorme, è ancestrale, un pianeta lontano su cui il padre non potrà mai sbarcare: un fatto ineluttabile, qualcosa che ti ritrovi, e di cui non domandi, come l’udito, ma io penso, me ne sono convinto a forza di dragare nel fondo di me stesso, penso che di veramente incredibile c’è questo, che un giorno ti tocchi distrattamente la testa e scopri di avere le orecchie.

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